Piazzale Cadorna, Milano. Uno strano sentore pop di quel filo e ago sproporzionati, una scultura da cartoon colorato, sparata a metri di altezza. Un gigantismo che mi fa rimpiangere le statuette kitsch nelle vetrinette sigillate a vista, in sala da pranzo, a fare bella figura di sé, nella speranza che qualcuno le faccia cadere e rimanga un vuoto ingombrante, una morte di porcellana bianca.
Sono a poca distanza da quella piazza, un ascensore stretto ricavato successivamente nella tromba delle scale, mi trovo direttamente davanti alla porta. Una sala ampia con un tavolo al centro, un computer acceso a lato, vicino al muro, una finestra, una libreria e foto incorniciate, appoggiate a terra.
Pochi oggetti, una stanza bianca simile ad una piazza in scala ridotta con un’isola centrale e deviazioni laterali. Un autoritratto con macchina fotografica che occulta il volto, un autoritratto leggero che ruota su sé stesso, appeso ad un filo, sopra ad una scrivania a parete. Altre fotografie spillate come appunti a suggerire una similitudine, perché Paola Mattioli costruisce dittici, affianca fotografia a fotografia, un modo di parlare, di sovrapporre scritture. Mi racconta di Mulas di cui è stata assistente, della differenza che passa tra una bella fotografia e una buona fotografia. Ed è in questo scarto che sta la scrittura, che prende forma il racconto, un archivio ragionato di parole necessarie. Prendiamo un caffè, la tazzina si comporta come una piccola scultura nella stanza. Appoggiata al tavolo, al tavolino di una piazza, quella che in quel momento è la nostra piazza. Arte pubblica. Una piccola scultura bianca che si relazione con gli altri pochi oggetti, con le fotografie, con le pareti alte. Anche una sola parola ripetuta diventa un alfabeto. Le prime fotografie che ho visto anni fa di Paola Mattioli fanno parte della serie Immagini del no. Una ripetizione di scritte, un NO incombente che si succedeva sui muri del 1974: la campagna per il referendum sull’abrogazione del divorzio. Una dopo l’altra, in un lavoro seriale, un modo per circondare, o meglio, dilatare due sole lettere su un territorio politico e geografico. Immagine dopo immagine: una sintesi letteraria che si adatta ad un paesaggio italiano che non ho mai vissuto, che vedo talmente distante da pensare quelle scritte come pitture rupestri sepolte in qualche grotta, buone per qualche atto propiziatorio.
Sale in macchina con me, oggi Milano è una città inaspettatamente alberata, attraversiamo piazzale Cadorna, andiamo verso la sua ultima mostra, parliamo di archivio, parliamo di archivi. Entriamo. Su una parete fotografie di due progetti diversi, leggermente distanti nel tempo, immagini quasi monocrome, immagini bianche e immagini nere in cui si intravvede qualcosa. Libri e scansie in legno bruciate (nero), scritte su muri fuori dal carcere di Milano censurate da una pennellata uniforme (bianco). Due progetti che vengono intrecciati, una cancellazione cromatica, la possibilità di guardare l’archivio come raccoglitore, come forma aperta da rimettere in discussione, sensibile al tempo, alla storia. Parliamo d’archivi senza parlare di memoria, mettiamo tutto sullo stesso piano, tutto adesso, senza preoccuparci di una classificazione scientifica. In questo momento ripartiamo da zero, ne abbiamo bisogno. Libri bruciati, scritte censurate, esplorazioni africane, bellissime donne albine, lettere, NO. Parliamo d’archivi con la leggerezza di una Milano assolata, ma non ancora calda, di una conversazione con nessun testimone, con una macchina lasciata in divieto di sosta (probabilmente), parliamo d’archivi perché abbiamo bisogno di rivedere tutto da capo, perché il tempo è uno spazio culturale e non fisico. È uno spazio che va riempito come fosse una piazza, uno spazio pubblico che ha bisogno di arredo urbano e siamo di nuovo in casa, vicino a quella piazza di una scultura esagerata. Ci salutiamo prendendo un caffè, questa volta al bar. Ogni casa è un archivio, ed è una messa in scena, la tazzina sarà rimasta sul tavolo ancora per pochi minuti la prima volta che sono andato da lei. Aveva la sua funzione, era un piccolo manufatto che misurava le distanze con gli altri oggetti, creando un nuovo sistema espositivo, un nuovo archivio temporaneo. Piazzale Cadorna è distante, i viali alberati sono distanti, il castello a pochi passi è distante. È una stanza con fotografie incorniciate appoggiate al pavimento che in quel momento erano scultura, come lo era il caffe dentro alla porcellana bianca, opera liquida, come lo eravamo noi che parlavamo senza testimoni in una casa di Milano al terzo piano.
Informazioni utili
Dati mostra:
Titolo: Settantavoltesette
Artista: Paola Mattioli
Curatore: Vittoria Coen
Dove: NUOVA GALLERIA MORONE, Via Nerino 3, Milano
Quando: 16 Maggio | 6 Luglio 2018
Orari: lun – ven: ore 11 – 19