Il Centro Matteucci per l’Arte Moderna ospita una retrospettiva di oltre 40 opere del maestro livornese, metà delle quali inedite, e affiancate per l’occasione da due celebri dipinti di Modigliani, L’enfant gras e Tête de femme rousse, eccezionalmente concesse dalla Pinacoteca di Brera e dalla GAM di Torino. Fino al 4 novembre 2018. www.cemamo.it
Viareggio (Lucca). Nonostante l’indubbio talento che contraddistingue la sua pittura, Oscar Ghiglia (1876-1945) subì, appena dopo la scomparsa, un lungo, ingiustificato oblio. Il celebre critico Carlo Ludovico Ragghianti lo attribuì al suo legame con il regime fascista, ma in questo caso sbagliava, perché l’artista livornese non ebbe niente a che fare con il movimento di Mussolini; l’equivoco nacque forse perché non prese mai una netta posizione contraria, perché non compì mai gesti di contrasto al regime. E tuttavia, non ne prese mai nemmeno le difese o fece sentire il suo assenso, e tantomeno apprezzò il Futurismo che del fascismo fu l’espressione artistica più evidente. Per ragioni anagrafiche Ghiglia appartiene all’Italia umbertina, della quale rispecchia la sobrietà borghese, raccontandola nelle sue tele che mai persero quel gusto ottocentesco per gli ambienti domestici, per i paesaggi vasti e silenziosi, per gli oggetti preziosi che arricchiscono le nature morte. Se il fascismo mostrò di apprezzare i suoi dipinti in virtù della loro vicinanza a certe tematiche borghesi, questa fu una mera coincidenza. Ghiglia dipingeva quello che sentiva veramente di voler dipingere, e il “ritorno all’ordine” non fu per lui un ritorno, in quanto non aveva mai aderito a nessuna avanguardia; il restare affezionato alle atmosfere intime, “borghesi”, o al paesaggio, fu per lui una questione di ricerca e di affinità con i soggetti, non di compiacenza verso il regime. Purtroppo, per un malinteso di portata storica, l’oblio subito dal pittore fu dovuto all’errato accostamento al fascismo.
Invece, quella di Ghiglia è la storia di un pittore di razza, divenuto tale dopo un’adolescenza trascorsa lavorando per guadagnarsi da vivere, a seguito della prematura scomparsa del padre. L’arte era per lui un momento di evasione dalla dura realtà quotidiana: lavorò infatti come merciaio ambulante in Lunigiana, come mestichiere a Viterbo, ortolano a Pistoia. Fino a quando decise di tornare a Livorno, sul finire dell’Ottocento, dove conobbe Amedeo Modigliani, che in un certo senso ne decise le sorti artistiche.
Oscar Ghiglia. Classico e moderno a cura di Elisabetta Matteucci, ricostruisce attraverso una raffinata selezione di opere in gran parte inedite, la parabola artistica di colui che seppe innovare in maniera personalissima la lezione di Giovanni Fattori e Paul Cézanne, mantenendosi su un xx equilibrio fra la tradizione e l’innovazione, come ben spiega il titolo scelto per la mostra, che documenta la fase più importante della carriera di Ghiglia, dal 1901 al 1930.
Gli esordi furono quelli del ritrattista di vaglia, alla Biennale di Venezia del 1901 con un autoritratto dal sapore cinquecentesco, dove il pittore posa come fosse un Pontefice, con la medesima spavalderia di un Giulio II. Nell’arco di pochissimi anni il suo stile evolve in maniera significativa, toccando eleganti e intense corde psicologiche, suggerite dagli incarnati chiari, dalla posa di tre quarti, dagli sguardi diretti ed enigmatici, che concettualmente ricordano la ritrattistica di Klimt, proprio in questi anni sulla breccia a Vienna dove ha fondata la Secessione. Poiché però Ghiglia non ebbe contatti con l’Austria, questo suo inserirsi nel clima artistico europeo è una questione di puro istinto, di puro talento, che lo portano a interpretare il sentire dell’epoca. Ma lo fece sempre dall’esterno, senza etichette ufficiali, senza la copertura di questo o quel movimento, tutto apprezzando e tutto negando, perché a emergere fosse sempre il suo punto di vista. Questa grandezza non era sfuggita al suo concittadino Amedeo Modigliani, che aveva lasciata l’Italia per la più frizzante Parigi delle avanguardie, ma che pure a intervalli tornava in patria per capire che aria artistica vi si respirasse, e dopo una di queste visite confidò ad Anselmo Bucci come Ghiglia fosse l’unico pittore italiano degno del nome. Ed era stato proprio Modigliani, che lo conosceva da tempo, a introdurlo all’inizio del Novecento nell’ambiente pittorico fiorentino, dopo aver visto e apprezzato le sue tele. Ghiglia si ritrovò così alla scuola di Giovanni Fattori, maestro indiscusso della Macchia, che lo educò anche allo studio di Giotto, dei Primitivi, di Piero della Francesca, di Tiziano.
Gli effetti furono da subito evidenti, e istradato da Fattori il suo talento si palesò in maniera ancora più piena. Raffinatissimo il Nudo di donna del 1904, che riecheggia la Venere d’Urbino ma in chiave sorprendentemente moderna, con quell’ineffabile espressione del volto che sa di passione e dileggio insieme. La pennellata si fa pastosa, preludio di quella evoluzione tardomacchiaiola e tardoimpressionista che sviluppò a Firenze, dove conobbe Ugo Ojetti, Giuseppe Prezzolini, Giovanni Papini e altri esponenti dell’ambiente intellettuale cittadino. Ma non partecipò mai alla vita mondana e letteraria, preferendo, alle sale delle Giubbe Rosse e di Paskowsky, il suo studio nella casetta di via Boccaccio, dove la città sfumava nella campagna. Lì, nella sua quiete domestica, dipingeva per i numerosi committenti che la sua fama crescente gli procurava giorno dopo giorno. Nonostante ciò, la sua predilezione andava a pitture lontane anni luce dalla magniloquenza e dalle sperimentazioni formali: nei suoi quadri si ritrovano accoglienti interni di gusto toscano, che riecheggiano Pascoli o Collodi, interni intimi come le camere da letto, di cui quasi sembra di percepire il tepore di coltri ancora fresche di bucato. La luce riveste un ruolo di primo piano nella costruzione del quadro, la pennellata si allarga e l’accostamento dei colori rivela al ricerca di accesi contrasti cromatici. Ma a cavallo degli anni Dieci, una nuova fase interessa la pittura di Ghiglia, che volge verso una fredda, solenne iconicità, e comincia a frequentare la natura morta; sotto i suoi colpi di pennello, questa assume un modernissimo andamento poetico, rimanda a interni vissuti nel quotidiano, include particolari quali libri, statue, porcellane, ammantati di quel medesimo silenzio che fu proprio di Chardin. E una di queste, Tavola imbandita del 1908, l’anno successivo fu acquistata dal collezionista Gustavo Sforni, che introdusse il pittore negli ambienti altoborghesi di Firenze e Livorno. Ghiglia divenne così il pittore di quella buona borghesia fiorentina e livornese che sempre più si andava affermando nell’Italia giolittiana, ancora legata ai valori liberali e a uno stile di vita ancora fondamentalmente sobrio, domestico, con i suoi salotti da ricevimento e gli accoglienti giardini per intime passeggiate, e che cominciava a scoprire la moda dei bagni di mare. Le sue pitture rivelano una commossa intimità familiare, che siano giovinette al pianoforte, una donna colta nell’atto di pettinare i lunghi capelli, o una massaia alle prese con la sistemazione delle verdure.
Oltre che da un punto di vista commerciale, dati i quadri che gli acquistava, la conoscenza di Sforni fu importante per Ghiglia perché gli permise di conoscere la pittura di van Gogh, presente nella collezione del livornese, e di studiarne l’uso del colore. Oltre che da lui, una nuova ispirazione gli venne anche da Paul Cézanne, introdotto a Firenze dal pittore Maurice Denis (che si era stabilito a Fiesole dal 1907) e approfondito da Ghiglia nella ricca biblioteca dell’amico Ojetti. Ma riconduce queste due importanti esperienze alla lezione di Giovanni Fattori. Ne scaturiscono dipinti dal rigore geometrico non esasperato, con i contorni delle figure non rifiniti e che si definiscono ancora una volta per contrasto cromatico. I quadri acquisiscono un carattere “tattile”, con quegli accumuli materici che disgregano la compostezza formale e il dosaggio tonale. Una sorta di “ritorno alle origini” lo si avrà negli anni della Grande Guerra, quando Ghiglia – anche per rimettersi dai postumi di una lunga malattia -, frequenta Castiglioncello profondendosi in numerose vedute paesaggistiche, caratterizzate da sintesi formale e una varietà cromatica quasi innaturale; paesaggi campestri dal sapore antico, che però sfiorano l’astrattismo, in virtù di un tratto sintetico che rasenta la “brutalità”. Un lirismo moderno, appena malinconico, ammanta i dipinti, che invitano a perdersi nell’azzurro minerale dei cieli.
Il primo dopoguerra, con la desolazione che si lasciava alle spalle, e l’affermazione del fascismo, vedono Ghiglia allontanarsi ancora di più dalla società, disgustato dalla piega degli eventi politici. In mezzo all’affetto dei familiari e a un’intima cerchia di amici, porta comunque avanti la sua ricerca pittorica: la composizione si fa più complessa, aumenta il numero degli elementi compresi in un singolo quadro, spuntano suggestioni orientali quali stoffe cinesi e stampe giapponesi, che sono pretesto per arditezze cromatiche vicine a Matisse in linea di principio, ma rilette in chiave sempre assolutamente personale. Come scrisse infatti Giovanni Papini, “Oscar Ghiglia ha veramente la più comune malattia dell’uomo geniale: la visione personale del mondo”. In ciò risiede la grandezza di Ghiglia, che pur rifuggendo la mondanità aveva cura della sua persona, al punto che l’amico e collega Llewelyn Lloyd così lo ricorda negli anni giovanili: “elegantissimo, folti capelli biondo-castani all’indietro […], baffi arricciati, sciarpa nera a fiocco svolazzante”. Era inoltre, sempre secondo Lloyd, “narratore piacevole, sarcastico e umoristico”. Insomma, un gentiluomo che si sarebbe trovato a suo agio anche nei salotti della severa Torino o della più dinamica Milano. Ma scelse di restare ai margini, pago del suo lavoro e delle soddisfazioni che ne ricavava.
In chiusura di mostra, un garbato, raffinatissimo divertissement, con L’enfant gras e Tête de femme rousse di quel Modigliani che tanto ammirava Ghiglia, e che a lui somigliava per lo stile del tutto personale che caratterizzò la sua pittura. Pur nella diversità dei personaggi – tanto “maledetto” Modigliani quanto l’amico era posato -, sono vicini nell’indipendenza dello stile che rifugge ancora oggi da qualsiasi tentativo di etichettatura. Un accostamento che è, probabilmente, l’omaggio migliore che Ghiglia potesse ricevere, oltre all’essere definitivamente riscoperto con questa piccola ma esauriente e approfondita mostra.