Mi ha sempre interessato la scrittura di Gadda e credo che una buona percentuale del mio interesse derivi dal fatto che fosse un ingegnere e che riuscisse a confondere i linguaggi, come se non ci fossero confini da rispettare e le parole si richiamassero in una strana forma di panacea letteraria. Ero a Milano ad una fiera di fotografia, nella strana convinzione che una tecnica fosse autosufficiente e bastasse a sé stessa, come avesse realmente un senso palare di fotografico escludendo il brusio circostante. Ma ero lì e ci dovevo rimanere per il tempo necessario, troppo.
Mi trovo all’ingresso con la critica Cristina Casero, ci conosciamo da quando ho iniziato a frequentare le sue lezioni sulla cultura visiva postmoderna, guardando alla scuola di Dusseldorf, a Thomas Ruff e all’enciclopedia industriale dei coniugi Becher. Non mi ricordo come ci siamo salutati, non mi ricordo com’era vestita e com’ero vestito io, una rimozione che preserva l’esperienza, senza deviazioni fastidiose, intatta nella sua bolla di sapone. Mi suggerisce due tappe, due autori, uno dei quali non sapevo assolutamente chi fosse. Vado allo stand di una delle gallerie, una piccola personale appesa alle pareti, un unico progetto. Ci presentiamo, vengo a sapere che viviamo nella stessa città e che su un tavolo di casa sua costruisce diorama di piccole dimensioni. Mari e onde che avvolgono velieri, marinai letterari, calamari giganteschi che si impadroniscono di sottomarini. Moby Dick o Treasure Island, Vingtmille lieuessouslesmers o Freya of the sevenisles, individua una pagina e la trasforma in immagine tridimensionale; una composizione che precede lo scatto.
Arturo Delle Donne è fotografo, dato non così scontato per chi fa fotografie ed espone in qualche fiera di settore. Non sapevo nemmeno che esistesse un dottorato di ricerca in ecologia e che fosse possibile abbandonare una carriera universitaria per iniziare a fotografare. Beviamo qualcosa a casa sua, decidiamo che forse Genova è una buona città in cui organizzare una mostra, perché c’è un porto, perché c’è un Duomo con un bassorilievo della scuola di Benedetto Antelami, perché è una Kasba dove è facilissimo perdersi e trovare donne che fanno ancora le puttane, appoggiate alle case. Siamo sul treno che ci porta alla stazione di Genova Principe. Prendiamo un caffè, siamo affacciati sul porto, davanti a noi una scultura a dimensione naturale di un dinosauro, di un tirannosauro Rex.
Un elemento estraneo, un intruso, un animale gigantesco appoggiato a terra, a pochi centimetri dal mare. Stranamente il posizionamento non ci crea troppo stupore, come se fosse normale aver appoggiato una scultura di un tirannosauro sulla banchina di un porto, una scultura da parco divertimento, senza senso, leggermente scolorita, bloccata nella sua fissità mostruosa e malinconica. A poca distanza c’è la sopraelevata che costeggia l’intera città, i piloni sono seganti da disegni colorati come se fosse l’unico modo di nascondere del cemento armato, orizzontale e verticale. Facciamo il sopralluogo, una sala lunga, bianca, ci saranno fotografie alle pareti, racconti di mare, intrecci temporalmente distanti. Melville e Jack London vicini alla nave Diciotti nella sua terribile e stupefacente quotidianità politica. Una grande narrazione, lunga secoli, una distanza annullata tra una pagina di letteratura e un bollettino dell’ansa. Tutto sullo stesso piano, tutto in una stanza, bianca, a pochi metri dal mare, dal porto, a Genova. Miti classici, telegiornali, filmati di youtube, dispacci della guardia costiera. Non c’è distanza, nessuna. Guardiamo la sala, facciamo alcune foto utili per progettare l’allestimento. Prendiamo il treno delle 17.30, vicino alla banchina ferroviaria è seduta una ragazza, sulla ventina, ha la schiena parzialmente scoperta e un tatuaggio troppo invasivo. Un po’ come il dinosauro appoggiato al porto, corpi estranei che dialogano con diffidenza.
Abbiamo cercato una carrozza con l’aria condizionata perché la temperatura era ancora alta: credo pensassi a Gadda per la provenienza, per come si possano mischiare le carte, per come non si butti via niente e tutto torni fuori, una cultura pregressa, anche se sono numeri, dati statistici o parassiti studiati al microscopio. Siamo vicini a Fiorenzuola quando mi confessa di costruire skateboard, non so quanti ne abbia mai prodotti e nemmeno se siano affidabili, ma in qualche modo tutto torna.