Arte e scienza si (ri)incontrano al Masi di Lugano. In occasione dell’ormai abituale appuntamento intitolato “La scienza a regola d’arte” -organizzato da Fondazione IBSA- due grandi personalità che si muovono nei territori al confine tra arte e scienza si sono confrontate davanti ad un’ampia platea, indagando il rapporto tra questi due mondi, solo apparentemente lontani. Il fisico americano James Beacham, membro della collaborazione ATLAS del CERN, uno dei team a cui si deve la scoperta del bosone di Higgs nel 2012. E l’artista tedesco Thomas Struth (1954), uno tra i più importanti fotografi sulla scena dell’arte contemporanea.
Il dialogo tra i due, moderato da Tobia Bezzola, direttore del Masi (Museo d’arte della Svizzera italiana), ha evidenziato diversi punti d’incontro tra arte e scienza, entrambe capaci di rendere visibile l’invisibile, di riportare in superficie ciò che passa comunemente inosservato, rischiando di sprofondare nel limbo dell’indifferenza. Ricercare ed ottenere informazioni sulla vita dell’uomo osservando lo scontro di particelle fisiche accelerate a velocità inimmaginabili, non è poi così diverso dal farlo scattando una fotografia. In entrambi i casi, l’artista come lo scienziato dovrà essere paziente e abile nell’individuare ciò che non è evidente agli occhi di tutti. Thomas Struth nel corso della sua carriera artistica ci è sicuramente riuscito. Partendo dalla Kunstakademie di Düsseldorf con professori come Gerhard Richter e Bernd e Hilla Bacher. Passando per il MoMA P.S.1 di New York e finendo per visitare ogni angolo del mondo. La sua ricerca artistica in continuo divenire gli ha permesso di fotografare una vasta gamma di soggetti che hanno spesso dato vita a serie fotografiche senza precedenti. Un esempio è la celebre serie dei Family Portrait, grazie alla quale nel 2011 è stato commissionato dalla National Portrait Gallery del Regno Unito di eseguire un doppio ritratto fotografico della regina Elisabetta II e del Duca di Edimburgo. Negli ultimi dieci anni si è dedicato a esplorare il rapporto tra artificiale e reale, girando il mondo alla ricerca di laboratori e grandi strutture di ricerca scientifica. Paesaggi del cervello moderno, come li ha definiti l’artista, inaccessibili e quindi invisibili ai non esperti del settore.
Dall’intrigante e rivoluzionario rapporto con il suo maestro Bernd Bacher, alle curiosità sugli anni vissuti in Italia tra Roma e Napoli. Dalla rinomata serie intitolata Museum Photographs, ai dettagli sui lavori meno conosciuti. Abbiamo approfittato di questo incontro per intervistare l’artista e fotografo tedesco Thomas Struth:
Tutto è iniziato tra le strade di Düsseldorf. Nell’autunno del 1973 hai iniziato la Kunstakademie Düsseldorf, l’accademia d’arte della città tedesca. Nel 1974 hai seguito il corso di un giovanissimo professor Gerhard Richter. L’anno successivo l’incontro con i grandi maestri della fotografia Bernd e Hilla Bacher. Cosa ti piace ricordare di quegli anni? E cosa hai imparato dagli insegnamenti di maestri così importanti?
Per rispondere in maniera esaustiva potrei impiegare mesi! Sono molti i ricordi che mi affiorano in mente. La classe di Gerhard Richter è stata la prima grazie a cui ho iniziato a studiare e lavorare come un artista professionale. È stata la prima volta in cui sono entrato in contatto con il mondo dell’arte contemporanea e tutte le sue implicazioni. Ho lavorato una decina di volte nello studio di Richter, ed ho avuto la possibilità di osservare ed imparare il suo metodo di lavoro, dal processo di riflessione e ricerca personale fino alle più pratiche strategie organizzative.
Alla fine di questo primo periodo ho smesso di dipingere ed ho iniziato ad interessarmi maggiormente alla fotografia. Dopo aver mostrato le mie prime fotografie a prospettiva centrale delle strade di Düsseldorf a Bernd Becher, sono diventato uno dei suoi primi 3 studenti insieme a Candida Höfer e Axel Hütte. Becher è stato un professore unico nel suo genere. Ci ha sempre preso molto sul serio. Grazie alla sua disponibilità, il nostro rapporto è stato qualcosa di speciale, un rapporto in vecchio stile. Informale, intimo e professionale al tempo stesso. Mi ha incoraggiato moltissimo. Partendo da tecnicismi riguardanti la pratica fotografica è stato in grado di aprire orizzonti con continue riflessioni e connessioni con il mondo dell’arte, della letteratura, della politica e della società contemporanea in generale.
Streets of NY city: Central Perspective. Questo il titolo della tua mostra al MoMA P.S.1, realizzata grazie alla borsa di studio che ti ha permesso di studiare e lavorare a New York nel 1978. Raccontaci perché è stata così importante per la tua carriera.
È stata un’esperienza fondamentale perché tornato a casa dopo i mesi trascorsi a New York, ho realizzato di voler effettivamente essere un artista. Se studi in un’accademia d’arte in Germania, puoi intraprendere una carriera da professore di storia dell’arte o da artista. Mio padre non avrebbe mai accettato l’idea che suo figlio potesse fare l’artista. Dopo svariate discussioni abbiamo raggiunto un accordo. Avrei potuto frequentare l’accademia d’arte per diventare un professore. La verità è che ho sempre saputo che tutto ciò non sarebbe mai accaduto… Dopo aver ricevuto una borsa di studio, aver trascorso 9 mesi a New York che si sono conclusi con una mostra di successo, sono tornato a casa vittorioso e convinto di essere sulla giusta strada.
Le tue foto intitolate “Family Portraits” sono uno strumento scientifico capace di indagare ed esplorare la natura più intima e psicologica delle persone ritratte. Questo progetto -iniziato come una ricerca scientifica condotta dallo psicoanalista Ingo Hartmann- si è trasformato in una stupefacente serie di opere d’arte. Il progetto è ancora in corso? Qual è l’ultima famiglia che hai fotografato?
Si, il progetto è ancora in corso e ora sto lavorando ad un Family Portrait dei miei vicini di casa a Berlino. Vivono di fronte a casa mia al quarto piano. Vedo casa loro dalla mia finestra da ormai 11 anni. Sono una famiglia con 4 figli, due ragazzi e due ragazze. Quando ci siamo trasferiti la bambina più piccola aveva solo un anno (ora ne ha 12 e il ragazzo più grande 22). Li abbiamo visti crescere, per questo è interessante ritrarli in una fotografia che sia leggibile e racconti il più possibile su loro. Ho fatto il primo tentativo l’estate scorsa. Sono una famiglia di 6 persone, non è stato semplice gestire lo spazio perché il loro appartamento era più piccolo di quanto mi aspettassi. Ho realizzato una fotografia non male, ma sento di non aver ancora raggiunto il risultato. So di poter realizzare una fotografia capace di trasmettere di più su di loro.
Com’è stato vivere tra Napoli e Roma alla fine degli anni ’80? Raccontaci di più sulla realizzazione della fotografia intitolata “Giulia Zorzetti con dipinto di Francesco De Mura” scattata a Napoli nel 1989.
Sono stato in diverse città italiane. Roma, Napoli, Firenze, Venezia, Milano. Nel 1988 ho vissuto per qualche tempo a Roma. In quei giorni ho ricevuto una chiamata da una mia amica inglese, conosciuta anni prima a Düsseldorf, che stava lavorando per la galleria Lia Rumma a Napoli. Lei mi ha convinto a visitare la città, perché a parer suo, ricca di spunti interessanti per il mio lavoro. Così una domenica pomeriggio del 1988 ho guidato da Roma a Napoli… città che fin dal primissimo secondo ho amato profondamente. Ci tengo a dirlo, sono davvero grato alla città di Napoli. Il tempo trascorso tra le sue vie mi ha cambiato la vita in qualche modo. Vivevo vicino a Spaccanapoli all’altezza di Piazza Gesù con Janice Guy e la sua amica restauratrice Giulia Zorzetti. A volte sono andato a vederla lavorare per scattarle delle foto tra cui “Giulia Zorzetti con dipinto di Francesco De Mura” e “Restauratori in San Lorenzo Maggiore”. Queste foto sono molto importanti, perché sono state il punto di partenza da cui poi ho sviluppato la serie delle Museum Photographs.
Museum Photographs, la tua serie più famosa e conosciuta in tutto il mondo. Qual è l’idea alla base di questo progetto? Dal punto di vista pratico, come esegui questi scatti?
Nulla nasce da un giorno all’altro. Come ho anticipato la serie deve molto alle esperienze vissute tra Napoli e Roma. L’idea alla base della serie è quella di recuperare e salvaguardare le opere d’arte affisse nei musei dal loro stato di dipinti iconici. L’obbiettivo è quello di unificare il tempo del dipinto al tempo dello spettatore che gli si pone di fronte, evidenziando come il rapporto tra i due possa rievocare la contemporaneità del dipinto stesso, intesa come il contesto originario dal quale un’opera è nata. Per quasi tutte le fotografie della serie ho atteso pazientemente la giusta disposizione dei visitatori del museo di fronte all’opera di mio interesse. Solamente in pochi casi ho dovuto disporre gli spettatori nello spazio per poter ottenere un risultato visivo e compositivo soddisfacente. La fotografia al Pantheon di Roma ne è un esempio. La luce era molto limitata e i visitatori in costante movimento. Ho così ottenuto il permesso di lavorare al di fuori dei normali orari di apertura. Ho scattato la foto il giorno di capodanno del 1990.
Picture from paradise. Fotografie che ritraggono le foreste di tutto il mondo. Dalla Cina, al Giappone, Germania, Australia Brasile e Perù… Cosa ti ha portato a questo cambiamento radicale nella scelta dei tuoi soggetti?
La serie ha rappresentato un cambio di rotta. Nuove opere e nuovi soggetti da cui sono scaturiti nuovi interessi. Mi sono focalizzato sulle possibili reazioni ed esperienze vissute dagli osservatori di fronte alle opere. Davanti ad una giungla o ad una foresta non c’è nulla da scoprire. L’osservatore paradossalmente si ritrova ad avere a che fare con sé stesso, diventando più consapevole e capace di elaborare le informazioni, qui ed ora. Allo stesso tempo, è stato interessante osservare come alcune fotografie abbiamo inevitabilmente e involontariamente espresso degli elementi legati alle specifiche culture di provenienza. Basta guardare come le grandiose foreste pluviali peruviane e brasiliane siano in grado di esprimere l’esuberanza della cultura latinoamericana, mentre le foreste giapponesi trasmettano l’armonia unica e tradizionale che caratterizza il paese.
Alla conferenza di oggi si parlerà delle molteplici relazioni tra arte, scienza e tecnologia. Come si sono intrecciati questi elementi apparentemente opposti nei tuoi ultimi lavori?
Nel 2007 sono stato in Corea del Sud, dove ho avuto la possibilità di visitare un enorme cantiere navale nell’isola di Geoje. Qui ho fotografato una mastodontica piattaforma di perforazione semisommergibile. Da qui in avanti ho iniziato a fotografare poli industriali, siti di ricerca scientifica, stazioni spaziali, cantieri navali, sale operatorie… tutti quegli ambienti che rappresentano l’avanguardia, la sperimentazione e l’innovazione nelle attività umane. L’aspetto migliore di questi lavori è stato quello di essere un “non specialist” infiltrato nel settore. Capace quindi di osservare ed immortalare quelle caratteristiche degli ambienti e delle infrastrutture che i ricercatori e gli scienziati non vedono più, perché al di la dei loro interessi. Un esempio interessante è la fotografia all’esperimento sui fumi chimici condotto presso università di Edimburgo. L’ambiente che ospita l’esperimento, per chi non fa parte del settore o non dispone delle informazioni necessarie per comprenderlo , può sembrare più simile ad una sala allestita per una festa di bambini. Quest’opera ci racconta ironicamente le problematiche comunicative e di comprensione tra gli uomini, evidenziando come un ambiente possa essere visto con occhi diversi, a seconda delle diverse prospettive.
Il mercato dell’arte della fotografia è in continua crescita con fiere dedicate ed eventi che attraggono sempre più collezionisti. Cosa ne pensi, e qual è la tua esperienza negli ultimi anni?
Nonostante i trend di mercato siano positivi, spesso si fa molta confusione nel distinguere gli artisti che usano la fotografia come mezzo creativo, e le masse di fotografi amatoriali che tentano di definire arte tutto ciò che fanno. È quindi importante che questa distinzione sia ben chiara, così che sempre più artisti che utilizzano la fotografia come mezzo espressivo si possano affermare sul mercato.