Tre artisti al MANN per un percorso espositivo aperto da Vitagliano in occasione del convegno Sull’Arte e la Cultura per l’Economia, l’Economia per l’Arte e la Cultura
Passato, presente e futuro, missaggio dal valore unico e imprescindibile continua ad evocare il proprio ruolo in quella che possiamo definire una “sostenibilità etica e culturale” di cui, troppo spesso, tendiamo a pensare di poter fare a meno. In nostro aiuto giunge il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, luogo incantevole ed incantatore, fiore all’occhiello della dimensione museale italiana e non solo, punctum della ricerca volta a tracciare i legami tra l’epoca classica ed il suo divenire. Ed è proprio al MANN che torna l’appuntamento con il convegno patrocinato dall’Unesco Sull’Arte e la Cultura per l’Economia, l’Economia per l’Arte e la Cultura. In concomitanza con tale occasione, a “parlare la lingua contemporanea dell’arte” sono invitati gli artisti Salvatore Vitagliano, Andrea Bove e Giuseppe Biguzzi. Un percorso, quello cui danno vita sino al 17 maggio, che si innesta nella ricerca aperta dalla mostra in corso al museo Canova e l’antico. Icona mistica – a cura dello Spazio Nea di Luigi Solito, con allestimento di Pio della Volpe – è l’evocativo viaggio proposto da Vitagliano, il quale accoglie i visitatori in un’immersione peculiare, ove lo spazio, anche quando ambiguo, è uno specchio in cui si ritrova la nostra presenza di esseri umani, in un orizzonte che Vitagliano ha conosciuto, abitato e che continua ad osservare in una stupefacente meraviglia del tutto e che ben si fonde con la stagione classica, la cultura proveniente dall’antica Grecia e che, proprio a Napoli, trovò terreno fertile per continuare a vivere.
“Salvatore Vitagliano ha la capacità di accogliere la dimensione ineffabile della cultura orientale all’interno del proprio lavoro di artista napoletano, senza alcun esotismo ma mirando al cuore degli enigmi che quella cultura ci porge. Enigmi spirituali, senz’alcun dubbio, guardando non a Dio ma all’uomo, guardandolo in volto, fissando i suoi occhi, toccando le sue mani. Da qui, per me, nascono la straordinaria bellezza dei volti dipinti e la sua pittura allo stesso tempo ferma e sfuggente, non catalogabile, un luogo silenzioso che appare per incanto dal ventre della città spezzandone il rumore. La stessa dimensione di questi lavori, nella maggior parte dei casi così raccolta, chiama all’attenzione silenziosa, alla scoperta. Una volta visto, un volto di Salvatore difficilmente viene dimenticato”, affermava il regista Mario Martone, che ha curato, in passato, una mostra per l’artista. Vitagliano ha generato una grammatica personale, riconoscibile mediante la creazione d’immagini divenute icone misteriose, caratterizzate da un intenso connubio di costruzione e decostruzione, segno che traccia, cancella, fa emergere, al contempo, un mondo sotteso, le cui lettere appartengono alla cromia, il cui ritmo sincopato pare suggerire quelli che Alciato pensava come emblemata, ma che vanno ad applicarsi, in maniera espressionista ed astraente, alla mano ed all’intuizione dell’artista. Nel ricorso alle radici – come ebbi a scoprire nell’agosto 2018, in occasione della kermesse VinArte, ove, con Giuseppe Leone ho avuto il piacere di curare la mostra diffusa ‘Resilienza Attiva’, in cui era presente una peculiare personale di Salvatore Vitagliano, a Guardia Sanframondi (Bn) – nell’affondare la materia in una sfera che rimanda ad un atavico infinito e ad un passato che è universo di memoria, di morte e rinascita, il Maestro ha originato una dialettica che è modus vivendi, latrice di un lirismo profondo, anche difficilmente comprensibile – la figura di Vitagliano ha saputo legare realtà lontane e differenti ove, accanto alla pura ricerca formale, materica, v’è molto altro, come il ricorso al rito. È, dunque, possibile una ritualità che non tenda alla Bellezza? La bellezza è una necessità e va rintracciata nel mistero d’essere vivi. Ma essa non è una leziosità e non può essere un’idea imposta. È costruire una narrazione od uno sguardo. In effetti, la dimensione del rito contiene in sé una magnificenza con potere intrinseco ma capace di far emergere una alterità più profonda e che val sempre la pena di osservare, lontano da ogni tipo di sovrastruttura e, anni fa, l’assegnazione di un metodo che possa essere applicato al lavoro di Vitagliano, ciclico ed infinito, arcaico e, al contempo, estremamente contemporaneo. Ecco, pertanto, il ricorso alla matrice archetipica che si riconosce sin da una prima lettura delle sue opere, allorquando il ritratto assume fantasmagoriche delineazioni per esprimere quanto di immaginifico sosta tra l’universo mondano e quello ideale, tra ciò che appare e ciò che, al contrario, è ancora velato, come quella ‘Napoli’ che si costituisce come tesoro da riscoprire, imperituramente per Vitagliano, con il suo amore per l’archeologia portato alla luce sin dagli anni ’70 entro l’alveo di un ripensamento resiliente del silente urlo del passato. Il Maestro premonisce il sogno, lo rende icona fascinatrice, ammaliante, perturbante anche, certamente, entro cui, tuttavia, la conoscenza e l’ossequio al classico, si traducono in una forza di traino, vettore di una rinascita piena che esplode nell’energia del fare artistico, pittorico, scultoreo ed intellettuale cui Egli appartiene in modo viscerale. In tal maniera, Icona Mistica è l’emblema, il quid di una rigenerata comunanza che guarda al passato per farsi voce dell’oggi e tensione rivelata per il futuro. Egli è genio perché si affida all’intuizione, è intimo conoscitore del mondo perché ha esperito il noto e il sotteso e, in un limbo che lo pone come occhio principe di una osservazione del nostro tempo, Vitagliano medesimo è allegoria di una testimonianza unica, in cui nulla è accessorio, ma tutto è essenza di una sostanziale descrizione interiore.
Accanto a lui, in questo dialogo con i temi trattati dal convegno, giunge Andrea Bove con Sarcofago dell’Umanità, opere che intendono indagare il confronto pluridisciplinare affrontato dal convegno e che si allineano, in generale, con la ricerca artistica di Bove, il quale è solito asserire: “Cosa irrompe negli Esseri, scolpendo quelle piccole differenze, soltanto apparenti… il Tempo. Ma esso non esiste e tutto è uguale”. Un concetto che torna e si fa strada nei meandri che Egli indaga attraverso il medium fotografico, tramite una speculazione concettuale che sostiene un percorso maieutico sempre vivo, in grado di delineare una traccia che tocca l’intero universo mondano ed umano. Il lavoro di Andrea Bove si dipana entro una dimensione che si oggettiva come architettura ontologica trasversale, in grado di farsi largo nel quotidiano in foggia di vettore filosofico, allegoria, emblematica ed enigmatica cosmogonia, in un fondamentale rimando al passato, nella sua sosta hic et nunc, ma ponendosi, d’altronde, come guida verso un nuovo avvenire. L’essenza dell’attimo – quello fotografico, ad esempio – traduce l’idea che dà forma ad una grammatica unica, qualità spirituale che delinea, seppur mutevolmente e discontinuamente, l’attivazione e il disvelamento di un aspetto della tecnologia, rivestendolo di una soggettiva intuizione visiva coincidente con la plurima possibilità di interazione. Dimensione temporale e fenomenica finiscono, dunque, per coincidere, farsi memoria che attraversa intuiti e, come nella musica, missa apollineo e dionisiaco tecnologico, nel flusso che, dalla natura, entra a far parte di una decostruzione nuova, contestualmente, rivelatasi affermazione di principi ed istanze non immediatamente visibili od intuibili ed al MANN si potrà comprendere la valenza più profonda di quel Sarcofago dell’Umanità, scrigno preziosissimo e cogitante.
A chiudere il percorso avviato da Salvatore Vitagliano è Giuseppe Biguzzi, con Omaggio a Canova, lavoro con cui l’artista ravennate apre un diretto colloquio con la mostra ospitata dal MANN e con uno dei capolavori canoviani per antonomasia, Le tre grazie. “Una indagine sulla sensualità mistica e allo stesso tempo erotica delle Tre Grazie”, si legge nel comunicato ufficiale, concetto che rimanda, senza dubbio, alla riflessione precipua del Biguzzi, innestata sulla figura di corpi di donna, su quell’eterno femminino che pone il proprio essere in uno spazio di nuova ontologia, di ripensamento del concetto di Bellezza e secondo i canoni di una seduzione che è eros profondo, traslazione di un abisso speculare, in cui passato e presente divengono i contraltari di qualcosa d’altrimenti inenarrabile e che, nella deriva del nostro vivere, si propone come baluardo di una intensa e nuova trattazione del tempo attraverso l’arte, per una rigenerazione, per una sorta di ‘rivoluzione incompiuta’ teatralizzante, una mise en scène in grado di determinare un novello codex che pur giunge dal rapporto con l’antico, come fu per Canova, oggi è per Biguzzi.
L’arte, in tale occasione, traduce un modus operandi che, se nell’ambito del convegno mira a svolgere una azione entro un campo di riflessione che tocca una dimensione ampia e da preservare, nelle opere dei tre artisti si propone come una rilettura dell’antichità scevra dalla polvere della mancata conoscenza per farsi varco di un mondo non più lontano.
Azzurra Immediato