Fino al 16 giugno sarà ancora visitabile la mostra Impronte degli artisti Nicolò Cecchella, Darren Harvey-Regan e Marco Maria Zanin, curata da Angela Madesani, presso la galleria Passaggi Arte Contemporanea di Pisa.
Una traccia, un calco. Potremmo partire da questi soli due elementi per capire, o almeno avvicinarci, alla mostra Impronte, curata da Angela Madesani, che vede protagonisti Nicolò Cecchella, Darren Harvey-Regan e Marco Maria Zanin.
Traccia e calco in un rapporto dialettico tra fotografia e scultura, dove i due linguaggi sembrano giocare sullo stesso piano, scambiandosi informazioni in un ripetuto richiamo tra dentro e fuori. I tre artisti alternano scultura e fotografia come se le due scritture potessero alternarsi vicendevolmente senza cadere in alcuna controindicazione. Infatti l’alternanza tra immagine bidimensionale e la fisicità del copro materico non crea imbarazzo. In entrambi i casi siamo alla presenza di oggetti che rimarcano la loro funzione di traccia, di reperto, di calco. Ed è proprio quest’ultimo aspetto ad essere evidenziato nel testo di Angela Madesani riportato in catalogo: “Il calco, come affermato dal filosofo Georges Didi Huberman, uno dei più importanti studiosi di questo tipo di problematica, introduce a due concetti fondamentali: contatto e perdita. L’orma lasciata dal piede nella sabbia, ma anche la perdita, l’assenza del piede stesso. E qui possiamo riprendere il concetto di indice, coniato oltre cento anni fa, dal semiologo Charles S. Peirce. Indice in contrapposizione a icona, contatto e somiglianza, fotografia e pittura.”
La fotografia si sottrae dal suo essere testimonianza diventando corpo autonomo, è scultura anch’essa. Marco Zanin raccoglie piccoli pezzi di palazzi brasiliani ormai distrutti e li compone, una composizione di morandiana memoria, oggetti di scarto che trovano una nuova accoglienza, un nuovo allestimento (Lacuna e Equilibrio, 2015). Altri scarti, altri pezzi di palazzi demoliti che si traducono in leggeri oggetti in porcellana (Restituzione, 2017). In questo ultimo caso il reperto diventa la possibilità di un nuovo calco. Ecco che Zanin avvicenda fotografia e scultura, traduce la stessa materia in diverse possibilità, senza il timore di dover rientrare in categorie specifiche. C’è traccia e calco, c’è conservazione e traduzione.
Lo stesso binomio che caratterizza la poetica di Nicolò Cecchella: “La traccia è una trasmissione legittima del vero, si pone al nostro sguardo in due sensi temporali: da una parte si diffonde nel presente e dall’altra occupa un posto nel passato, noi la seguiamo nella distanza e cerchiamo di colmare nel presente lo spazio vuoto della sua origine.” Cecchella appoggia alla parete due fusioni in bronzo, il calco della traccia dei suoi denti impressa su terra malleabile (Traccia, 2017). Misura con il proprio corpo un territorio, lascia un’impronta primaria, un gesto che precede tutto. Un gesto che nella sua semplicità deve essere tradotto, conservato, protetto. Ecco la scultura, ecco il bronzo. Accanto alle due barre compare una fotografia (Statua, 2015), una scultura, o meglio, quello che rimane di un’antica scultura, presumibilmente romana. Un mozzicone di corpo, un ricordo di qualcosa che è stato. In entrambi i casi Cecchella ha necessità di testimoniare un avvenimento, una fragilità, quello che sopravvive ad un trauma. Non importa se è fotografia o fusione in bronzo, in entrambi i casi si palesa un oggetto, un accadimento che si fa oggetto.
E ancora volti in ceramica, i suoi volti, che occupano il pavimento della stanza (Volto terra, 2015-16). Vuoto / pieno, positivo / negativo, fotografia e scultura si giocano la piazza. Ma anche in questo caso non c’è dicotomia o tentativi di prevaricazione, c’è solo il bisogno di legittimare un’orma lasciata da un corpo su un territorio accondiscendente. Ed è forse Darren Harvey-Reganad abbatte qualsiasi tipo di barriera residua, cancellando ogni tipo di confine tra fotografia e scultura. Costruisce per fotografare, fotografa per costruire, crea oggetti che fotografa, crea oggetti perché siano fotografati: “Sono consapevole che gran parte dei lavori che sto facendo in questo momento combinano tre elementi: gli oggetti originari, le immagini senza corpo e l’oggetto fotografico. Presentandoli con una certa sovrapposizione percettiva e un gioco ironico di ciascun elemento separato dagli altri; le cose cambiano le loro proprietà, acquisiscono altri significati, differenti prospettive. Le fotografie non esistono solo per mostrare cose, sono cose loro stesse, oggetti fra i tanti”.
La fotografia è oggetto, la fotografia è scultura. E l’ironia di Harvey-Regan si evidenzia nell’opera Phrasings (2013) dove la presenza scultorea viene posizionato a parete e la fotografia appoggiata a terra come fosse una scultura. Un allestimento che rimarca un interscambio linguistico che probabilmente è la nota più rilevante della mostra. Un modo per equilibrare, come sostiene Huberman, il contatto e la perdita, un calco che non è altro che una forma di memoria, una forma di resistenza.