La Cavalleria Rusticana di Gabriele Lavia al Teatro Regio di Torino fino al 22 giugno
Quando si alza il sipario lo scenario che appare al pubblico è quello di una fotografia dai colori forti, pieni e suggestivi, dove non vi è altro che uno sfondo nudo e crudo fatto di lava. Lava grigia, quella che scendendo dal vulcano si è raffreddata, e lava rossa, ancora incandescente che sembra brillare sotto la luce della luna. Così ha immaginato Gabriele Lavia la sua Cavalleria Rusticana che ha debuttato martedì 12 giugno alle ore 20 al Teatro Regio di Torino dove resterà fino a sabato 22 in programma insieme al balletto La Giara musicato da Alfredo Casella con la coreografia di Roberto Zappalà.
Non a caso Gabriele Lavia ha dato rilievo all’aspetto fotografico in questa sua nuova regia in quanto lui conosce a pieno l’arte che Giovanni Verga possedeva assieme a quella delle scrittura, che era appunto quella della fotografia. Un aspetto della sua vita che ha sempre colpito il regista, anche lui di origini siciliane, e che ha trascorso la sua infanzia proprio a Catania dove la lava è visibile su tutto il litorale della città.
Lavia la cui sapienza teatrale diventa ogni anno che passa sempre maggiore, sa bene che meno orpelli sono in scena e più si dà risalto a quanto accade sul palco, per questo toglie sempre di più per far vedere di più. Sembrerebbe un paradosso, ma l’essenzialità e la crudezza del “quasi nulla” ha una tale forza che il dramma di amore e gelosia che tutti conosciamo esce fuori proprompente sin dal primo momento, proprio perchè oltre alla storia e alla grande musica di Mascagni i nostri occhi ed il nostro cuore non devono occuparsi di altro.
Verga fotografava i contadini, la gente, raffigurando il “Vero”, ma attenzione che, come dice il regista, quel Verismo non ha niente a che vedere con la realtà, anzi la trascende. L’occhio fotografico di Verga va oltre e la sua poetica più grande sorge proprio attraverso le foto della realtà , mettendola per così dire in posa.
Per questo la Cavalleria di Lavia non ha bisogno di mostrare nè la chiesa nè l’osteria di mamma Lucia, che sono dietro le quinte. In scena accade solo “il fatto” che si consuma in un un paesaggio lavico, anche se a Vizzini non c’è lava, ma la lava è nei ricordi di bambino del regista, ricordi che porta ancora nitidi nella sua mente. Ma se chiesa e osteria non sono fisicamente visibili, non vuol dire che non ci siano, anzi! Chiesa ed osteria sono dietro le quinte, rappresentati da una piccola rampa di scale sulla sinistra ed un tavolaccio sulla destra.
Ed è su quelle scale che vanno a scomparire dietro le quinte che salgono e scendono i personaggi che la domenica di Pasqua vanno a messa, è sulle scale che passa la processione, ed è sulle scale che invece Santuzza non salirà mai perchè oramai indegna di varcare la porta del Signore. Ed è nell’osteria che Turiddo invita tutti a bere e poi parla con la madre prima di andare alla morte. E così gli occhi del pubblico per nulla distratti, percepiscono nitidamente i sentimenti dei protagonisti che Lavia in maniera magistrale ci fa leggere attraverso un gioco di luci emozionante.
Ecco che non passa certo inosservato l’ingresso del cavallo vero in scena che tira il carretto con su Alfio, cosa forse non molto gradita agli animalisti, ma che ha sempre il suo effetto come quando sul palco dell’Arena di Verona arrivano gli elefanti al momento della marcia trionfale di Aida. Come non passano inosservate le grosse statue di Cristo e della Madonna sulle spalle dei portatori in processione, figure incombenti e cupe che sembrano presagire il finale del dramma. I costumi sono quelli del secondo Ottocento, ma senza nessuna pedanteria storica, con una prevalenza del nero. E così la macchina perfetta della partitura di Mascagni va dritta al sodo, essenziale, senza alcun fronzolo, arrivando al cuore dello spettatore inesorabilmente, con tutta la forza che può avere un’opera di un giovane compositore.
A chiudere la famosa battuta “hanno ammazzato compare Turiddu”, che viene pronunciata come di consueto da una voce femminile dietro le quinte, ma che qui viene anche urlata da un ragazzino che corre in mezzo alla scena stravolto. Unica libertà registica, assolutamente pertinenete e perdonata come accade sempre quando dietro certe scelte ci sta un maestro, punto di riferimento del teatro e del cinema italiano contemporaneo, come Gabriele Lavia.