Oltre 30 gli artisti protagonisti per oltre un anno del progetto curato da Gino D’Ugo nello spazio ligure di Tellaro
Lo spazio Fourteen Art Tellaro non è facilmente definibile – e non è neppure alla ricerca di una definizione, in realtà – proponendosi a metà strada fra una ‘galleria’, uno ‘spazio indipendente’, un ‘luogo di ricerca e sperimentazione’, rifuggendo, tuttavia, da queste ingabbiature concettuali. Senza dubbio, però, si tratta di una sorta di ‘osservatorio sul contemporaneo’ ove alle belle cose si sostituiscono quelle vere, spesso scomode, difficilmente accettate altrove oppure comprese solo altrove, spesso al di là dei confini nazionali. Racchiuso nella piccola piazza di Tellaro, a pochi metri dal mare della costa ligure, Fourteen Art Tellaro è nato grazie all’intuizione di Gino D’Ugo e Guido Ferrari e tenta, riuscendovi, di offrire un percorso nell’arte assolutamente inusuale. Per chi conosce lo spazio sa che si tratta di una sfida messa in atto attraverso una piccola stanza, con un’unica vetrina affacciata sulla piazza in cui e da cui si avviano viaggi nella profondità dell’infinito artistico che non necessita di grandi saloni; resta il fatto, però, che si è trattato di una grande scommessa, certamente un passo su una ‘superficie accidentata’.
Ed è proprio ‘La Superficie Accidentata’ il laborioso progetto avviato nel 2018 e curato, in particolare, da Gino D’Ugo che Egli stesso ha definito “superficie che non presenta più la caratteristica dell’immacolato, del semplice, dell’inespressivo e del vacuo. Ha i segni e la memoria di accadimenti, è un luogo sconnesso e impervio, ha i suoi rilievi e le sue profondità, le sue scomodità se non i suoi tormenti. Spalanca le finestre e abbatte le superfici per vedere cosa c’è dentro se non dietro. Non consente che qualsivoglia cosa attecchisca facilmente e maggiore è la sua profondità maggiore diventa il lavoro volto a svelare i suoi enigmi e le sue memorie. Così la white box di Tellaro si prepara all’accidente creativo o forse a svelare accidenti sociali e psicologici del nostro quotidiano o del nostro remoto”. La stampa e la critica hanno seguito l’intero percorso del progetto che, tuttavia, si avvia a conclusione, con gli ultimi tre interventi di Elena Bellantoni, Filippo Berta e Romina Bassu.
Dal 17 al 30 agosto Elena Bellantoni è stata protagonista di CeMento, installazione site specific derivante da quella presentata alla Galleria Nazionale di Roma per “You Got To Burn To Shine”. La riflessione della Bellantoni, chiarita in parte nel titolo, pone il focus sull’illusione e la menzogna che si avvale di una costruzione metaforica: “L’installazione è composta da giochi d’infanzia:, un secchiello, rastrello e paletta, un innaffiatoio, ed un pallone. Sono tutti oggetti in dimensioni reali che dovrebbero essere giochi, ma non è così poiché sono fatti di cemento (…) Nello specifico, il cemento a partire dagli anni ’70 ha rappresentato il materiale che ha falciato e distrutto il Belpaese; nel nostro immaginario collettivo sta anche per il materiale usato negli omicidi di mafia, adoperato per cementificare i corpi, farli scomparire nella colatura per poi gettarli chissà dove. Dal boom economico in poi, il cemento è stato utilizzato nelle grandi opere pubbliche che avrebbero dovuto rappresentare la rinascita dell’Italia. Un materiale che non dura più di 60 anni, come per dire che il nostro Paese si poggia sul nulla… CeMento assume quindi diverse connotazioni di natura visiva, concettuale e politica. (…) CeMento costituisce il tentativo di lavorare su un piano poetico mantenendo pesantemente i piedi per terra: sono tutti oggetti che assumono un peso molto forte, provocando nello spettatore un corto circuito che scaturisce dal loro aspetto seduttivo e giocoso, da questa finta leggerezza che crea una condizione di frustrazione ed impossibilità. Cementificare il linguaggio significa paralizzarlo, renderlo immobile. Ciò che viene pietrificato, trasformato in cemento, non può più svolgere la sua funzione, acquista peso ma perde di vita. CeMento vuole essere infine una riflessione sul ruolo dell’artista che prende una posizione dura, lapidaria, rispetto alla realtà che ha di fronte”, afferma l’artista, proponendo una necessità di protezione del pensiero da obnubilamenti collettivi.
A seguire, è il turno di Filippo Berta, con Sulla retta via, in corso dal 31 agosto al 13 settembre, una opera video realizzata nel 2014, visibile attraverso il vetro di Fourteen, tramite uno schermo, in cui, soggetto iconografico è una fila di persone che si muove sulla battigia di una spiaggia deserta. In tale azione, ogni individuo è concentrato su sé ed il proprio incedere, nel tentativo di seguire il profilo discontinuo delle onde e generando una traccia labile in cui acqua e terra si (con)fondono. Le persone, in maniera impossibile, cercano di comporre una linea perfetta rispetto alle onde, metafora di un obiettivo irraggiungibile e che Filippo Berta definisce come “impossibilità causata dai movimenti perpetui e irregolari del mare, che divengono una metafora suggestiva dell’impossibilità dell’uomo di trovare un equilibrio tra la propria indole intuitiva-emotiva, e il ruolo della società che ne condiziona e corrompe l’essenza individuale”. Ecco, una ulteriore allegoria di quella Superficie Accidenta: “L’essere umano viene (de)formato dalla società che penetra le coscienze individuali e condiziona i comportamenti mentali, indirizzando l’individuo verso ruoli standardizzati e verso una competizione intrinseca. Evidenziando la tensione e l’abisso esistenziale che nasce sulla base di questo dualismo, con il lavoro di Filippo Berta ci si avvicina quindi alla ricerca delle cause e delle condizioni di queste mutazioni, ma anche all’individuazione di una natura profondamente umana”, si legge nel comunicato ufficiale.
A chiudere l’intero ciclo progettuale de La Superficie Accidentata, giungerà Romina Bassu, con Rise and Fall, a Fourteen dal 14 settembre al 20 ottobre. L’artista che avrà anche il ruolo di concludere una ricerca sperimentale avviata dal curatore sin dal maggio 2018, proporrà la propria ricerca, affidata all’intrinseco rapporto tra eterno femminino, corpo e vulnerabilità, attraverso i prodromi della pittura e di una grammatica tale da definire una narrazione di carattere esistenziale. Un abbecedario, quello della Bassu, che descrive le contraddizioni del nostro tempo, invocando la stereotipia dell’immaginario comune rispetto al ruolo della donna, per tentare di affrancarlo da una visione inadeguata. ‘Rise and Fall’ consterà di alcuni dipinti che, in foggia di ideale sequenzialità, mostreranno una figura femminile protagonista di una perdita d’equilibrio e di una rovinosa caduta in terra. In tale ‘accidentalità’, la superficie reale si missa con quella sociale e culturale, con la condizione umana e la sua percezione, non già e non solo estetica, fenomenica e visibile, quanto anche con quella afferente alla dimensione interiore e psichica, ambiti che si scontrano, invece, con il desiderio collettivo di offrire all’apparenza ed ai suoi elementi di ‘perfezione’ e caducità una importanza sovrastimata eppure frutto di una manipolata consapevolezza.
Dal 21 ottobre prossimo, dunque, si potrà certo sostenere che il progetto La Superficie Accidentata di Gino D’Ugo, sostenuta da Fourteen Art Tellaro e Andrea Luporini, ha tentato di agire nello spazio indefinito e fatuo del nostro tempo, ove persino l’immaginazione pare aver perso i propri riferimenti, in un troppo ampio annichilimento. Dal maggio 2018 all’ottobre 2019, La Superficie Accidentata ha generato una incredibile riflessione corale, una capillare e caleidoscopica narrazione attraverso voci e sguardi di quegli artisti che, ad oggi, possono considerarsi esponenti di un flusso generazionale importante, legati non già e non solo alla forma, quanto, piuttosto, alla relazione strettissima tra arte e ricerca concettuale che, attraverso una forma percettivamente condivisa, possa parlare in maniera diretta, forte ma ancora lirica, alle persone. Quelle che Roberto Daolio chiamava ‘aggregazioni per differenze’, si sono ritrovate ne La Superficie Accidentata e, con lo sguardo rivolto al mare di Tellaro, hanno definito un nuovo percorso di lettura ed interpretazione di questo tempo, orfano di equilibri.
Se ad Elena Bellantoni, Filippo Berta e Romina Bassu spetta l’importante compito di chiudere questo interessante ciclo, è il caso di ricordare gli artisti che hanno preso parte alla sfida avviata da Gino D’Ugo, dal 2018: Paolo Assenza, Christian Ciampoli, Giovanni Gaggia, Mauro Folci, Alessandro Brighetti, Davide Dormino, Caterina Silva, Corinne Mazzoli, Marina Paris, Iginio De Luca, Igor Grubic, Riccardo Gemma, Arianna De Nicola. Ad essi, la scorsa primavera, si sono avvicendati gli artisti chiamati a partecipare alla rassegna video afferente al progetto: Sandro Mele, Massimo Mazzone, Nicoletta Braga, Christian Ciampoli – tornato in collaborazione con Silvia Sbordoni – Marina Paris con Alberto D’Amico – RADIO ZERO, Iginio De Luca in video post produzione del primo intervento, come Giovanni Gaggia, Daniela Spaletra e Luca Monzani. Ed ancora Colectivo Democracia, Alain Urrutia, Luca Vitone, Silvia Giambrone, Giampaolo Penco e Laura Pinta Cazzaniga, Elena Bellantoni, Filippo Berta con altre due opere video, ed infine Philipp Gufler, Simone Cametti, Anuar Arebi, Elena Nonnis, Franco lo Svizzero, Alice Schivardi, Federica Gonnelli, Fabrizio Cicero, Fiorella Iacono, Sonia Andresano e Calixto Ramirez Correa.
La Superficie Accidentata e Fourteen Art Tellaro si confermano momento e luogo d’azione intellettuale e culturale, atti ad ampliarsi non già e non solo nella dimensione estetica, quanto, piuttosto, in quella concettuale, facendosi traccia contro il torpore della ragione critica. Un anno, trascorso troppo in fretta, ha messo in luce un vasto ripensamento che merita di valicare il confine di Tellaro per acquisire sempre nuovi elementi di riflessione.
Azzurra Immediato