Il 12 settembre cade una ricorrenza particolare: nel 1919 Gabriele D’Annunzio decise di conquistare con le armi la città di Fiume. Qui un ricordo degli anni convulsi del poeta che si fece legionario.
Il 12 settembre del 1919 rappresenta una data fatale per Gabriele D’Annunzio: nella Conferenza di Pace la città di Fiume pare irrimediabilmente perduta per l’Italia. Allora il nostro Vate concepisce ed attua l’audacissimo disegno di occupare la città. Entra a Fiume a capo di 287 legionari, che poi saliranno di numero. Sono tutti volontari: reduci di guerra, intellettuali collegati al Movimento Futurista, anarchici, socialisti. Disobbedisco! grida alla platea di devoti. Così il Poeta a Fiume si fa politico e legislatore; pronuncia una serie di discorsi che verranno pubblicati con il titolo di Contro uno e contro tutti; si dedica alla stesura di una Costituzione della Reggenza Italiana del Carnaro.
Ma nel 1920 il governo italiano, con a capo Francesco Saverio Nitti, a cui D’Annunzio affibbia l’epiteto di Cagoja, manda l’esercito a Fiume, causando un’imprevedibile battaglia tra militari e civili, con morti e feriti. Il 29 dicembre D’Annunzio restituisce i poteri alla Rappresentanza Comunale di Fiume e l’anno seguente lascia la città. Prende residenza a Gardone, nella villa Cargnacco, subito ribattezzata Vittoriale degli Italiani, il cui bellissimo parco pieno di opere d’arte ha vinto, giusto quest’anno, il premio Il Parco più bello d’Italia. Al Vittoriale D’Annunzio vive fino alla morte, nel 1938, e qui è sepolto.
Era lui stesso un’opera d’arte. Poeta, romanziere, commediografo, la sua vita artistica è definibile un poema irripetibile, una presenza creativa pagana, sensuale, genialmente capace di essere uomo d’azione e nel contempo Narciso contemplativo.
Aveva un radicale senso della Patria. Uomo politico, militare, aviatore, ufficiale, interventista nella Prima Guerra Mondiale, partiva in battaglia e non si risparmiava. Volò su Vienna. Portando a termine la beffa di Buccari perse un occhio. Si guadagnò una medaglia d’argento al valor militare. Politicamente di destra, dunque. Ma il Regime Fascista non era un suo punto di riferimento. Semmai il contrario. Era un esteta raffinato, colto, elegante, un utopico post risorgimentale che credeva ai propri sogni. Di lui poco o nulla potevano capire i gerarchi fascisti, cortigiani che preferivano scimmiottare il loro Duce, oggi così buffo quando lo vediamo nei cinegiornali dell’epoca. La presenza declamatoria di D’annunzio era il preciso specchio di un’epoca fervida e positiva, sino a quando l’evento di Fiume non venne contrabbandato come preludio della Marcia su Roma.
Quello che avvenne in seguito – e io c’ero, bambino ebreo senza più un cognome – non c’entra per nulla col nostro ineffabile e patriottico Vate, anche se a qualche nostalgico piace crederlo.
Ed ecco qui di seguito il mio patriottismo, meno aulico di quello dannunziano, ma oggi ancora necessario….
L’indifferenza dorme in ogni clima,
il saggio semina per un fiore,
mentre il dolore come il sole
vive di luce propria. Fuori è già notte,
nascosti parliamo in silenzio di fiabe
che erano storie. In quegli anni la morte
era un atto di vita, oggi molle sui cuori di pietra
è tornata la muffa lasciandoci soli con storie
da diventar religiosi: ricordo La Piana di Fieno,
l’incepparsi della mitraglia, uno sull’altro cadere
i compagni stupiti con gli occhi bambini. Vieni
con me domani notte a vegliare le lapidi,
accenderemo torce per scacciare il freddo
della crudele indifferenza dell’oblio.