C’era una volta a Hollywood, Leonardo DiCaprio e Brad Pitt protagonisti del 9° film di Quentin Tarantino. Al cinema dal 18 settembre
Tarantino torna nelle sale prendendo in prestito la più celebre delle formule fiabesche per raccontare una storia che oscilla tra la malinconia del declino e la speranza. C’era una volta a Hollywood, nelle sale italiane da mercoledì 18 settembre, è una storia che, inizialmente, il regista avrebbe voluto raccontare in un romanzo, una vicenda che si svolge nella Los Angeles degli anni Sessanta, al tramonto della Golden age delle faraoniche produzioni hollywoodiane. In questo scenario si muovono l’attore televisivo Rick Dalton, Leonardo DiCaprio, e la sua controfigura-tuttofare Cliff, interpretato da Brad Pitt, tra i protagonisti del periodo dorato dei western -genere che iniziava ad arrancare proprio sul finire degli anni Sessanta- sono entrambi in cerca di un’occasione per tornare alla ribalta dopo aver imboccato il viale del tramonto.
La loro storia si intreccia, in maniera curiosa e per nulla scontata, al massacro che sconvolse gli Stati Uniti nella notte del 9 agosto 1969: l’omicidio brutale, per mano di alcuni adepti di una setta guidata da Charles Manson, di Sharon Tate – compagna di Roman Polanski – e quattro suoi amici.
Già dai primi minuti si intuisce la distanza tra C’era una volta a Hollywood e gli altri titoli storici del regista, che nel film pare accantonare la sua estetica pulp in favore di un montaggio serrato in cui si è divertito -palesemente- a giocare con le tecniche di ripresa, con i filoni cinematografici in voga all’epoca -le cui citazioni sono più profonde quando non espresse marcatamente- e, soprattutto, con la caratterizzazione accentuata e tridimensionale dei personaggi.
Tarantino ha voluto a raccontare un’epoca cinematografica che non ha vissuto personalmente, essendo poco più che un infante ai tempi dei fatti narrati: «Per scrivere [il film] – ha dichiarato – sono dovuto tornare indietro a quando ero bambino, rivedere le cose attraverso il mio sguardo di allora». Ma nella pellicola non c’è tempo per abbandonarsi alla nostalgia: il ritmo sostenuto e soprattutto la valanga di citazioni (televisive, cinematografiche e pubblicitarie) convergono in un’alchimia perfetta. Parlando di riferimenti e omaggi, è impossibile non sottolineare l’accuratezza con cui il regista ha inserito nel film alcune citazioni ai suoi amori cinematografici più grandi: gli spaghetti western e i b-movies degli anni Settanta. Tutte le grandi manie di Tarantino emergono accontentando generosamente i cultori delle sue opere precedenti e, soprattutto, della sua “filosofia”.
Il grande perno della storia è il rapporto d’amicizia tra i due protagonisti, Rick e Cliff: DiCaprio e Pitt si mettono a disposizione di una pellicola che celebra la loro grandezza e li rende, da perfetti antieroi, beniamini di una favola noir. Le loro anime scure, i loro problemi, le loro dipendenze cedono di fronte al grande rapporto di complicità che li lega in questo continuo tentativo di risalire la china in un ambiente che pare non avere più bisogno di loro. I due attori sono perfetti nei rispettivi ruoli di “protagonista smarrito” e “spalla invadente”: la loro alchimia è il motore dell’intera storia ed è il ritratto perfetto di una generazione di attori la cui carriera era strettamente legata a quella del proprio stunt-man. Dice Pitt a tal proposito: «All’epoca si trattava di vere e proprie collaborazioni, si decideva insieme che tipo di scena girare, come fare a cazzotti. Prima che morisse abbiamo avuto modo di parlarne con Burt Reynolds che, ai tempi, aveva questo tipo di relazione con lo stunt-man Hal Needham».
Sharon Tate (interpretata da Margot Robbie), le cui vicende si sviluppano in una sorta di storyline quasi del tutto autonoma, viene dipinta -quasi a voler marcare l’identità fiabesca del titolo- come un personaggio fatato: una giovane speranzosa, dall’aria innocente e un po’ naïf, intenta a scalare l’Olimpo del grande cinema con umiltà e incanto. È deliziosa la scena in cui si reca nella sala dove viene proiettato un film che la vedeva tra i protagonisti (“Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm”, il cui titolo originale era “The Wrecking Crew”, di Phil Karlson), godendosi la sua immagine proiettata sul grande schermo e, soprattutto, le reazioni compiaciute del pubblico di spettatori.Come in tutte le favole all’eroina si contrappone una cattiva e questa non fa di certo eccezione: seppur non “opposto” direttamente a Tate, il personaggio è quello interpretato da Margaret Qualley e vagamente ispirato a Kitty Kat, una delle seguaci di Charles Manson. Quello interpretato dalla Qualley (The Nice Guys, Palo Alto) è senza dubbio il ruolo più enigmatico e conturbante della pellicola: il suo fascino oscuro, non del tutto indifferente agli occhi di Cliff-Brad Pitt, regala una delle scene più -metaforicamente- erotiche del film.
Come per tutte le pellicole firmate da Quentin Tarantino, questa non fa eccezione riguardo alla maestosità della fotografia: curato da Robert Richardson, storico collaboratore artistico del regista, il film è stato girato su pellicola Kodak 35 mm in formato anamorfico; i più attenti noteranno che, invece, le scene riguardanti le serie fittizie “Bounty Law” e “Lancer” sono girate in Super8 e la ripresa delle scene è avvenuta direttamente in bianco e nero.
La spasmodica passione per i formati dell’epoca emerge così in tutto il suo splendore, coerente con l’accuratezza contenutistica riservata ai generi televisivi e cinematografici che per il regista sono veri e propri oggetti di culto. Un’altra vera e propria chicca, a questo proposito, è la scena del provino di Dalton-Di Caprio per La grande fuga, in cui avrebbe dovuto recitare nel ruolo di Steve McQueen.
C’era una volta a Hollywood è una meravigliosa dichiarazione d’amore di Tarantino al mondo del Cinema: è proprio per questo, forse, che la sua favola agrodolce rispetta la magia secondo cui la Settima Arte potrebbe far accadere cose impensabili, cambiando le vite e stravolgendo finali ampiamente previsti.