Una “rivelazione” nel senso più ampio del termine, come manifestazione di un assoluto onirico e ineffabile perennemente inseguito e vagheggiato (e perpetuamente smarrito e disperso) dall’uomo nella sua opera e creazione, di qualunque natura si tratti. Looking for Utopia è una perla scovata tra campi e campielli veneziani (all’Hotel Novecento) che rifulge un chiarore utopicamente romantico. Una delicata narrazione che spicca nella ridondante selva di mostre e mostriciattole (spesso totalmente inutili) fiorite negli ultimi mesi in ottica Biennale. Il racconto dell’ancestrale ricerca d’utopia nell’opera dell’uomo che si fa artista, in questo caso (quasi) mai portata (anche in senso materiale) a compimento, nella narrazione espositiva curata (e illustrata ora ai lettori) da Bianca Cerrina Feroni, curatrice (insieme a Melania Rossi) della mostra.
Incastonata in una delle calli traverse dietro Campo Santo Stefano “Looking for utopia” è una gemma compiuta dell’incompiuto nella dimensione del sogno. Un ovattato elogio del non finito, o meglio del non realizzato, che brilla tra i sordi vetri veneziani e i cardi secchi poggiati sui tavoli di legni opachi dell’Hotel Novecento. Incompiuto e non finito non come stile, ma come sentiero interrotto (citando liberamente Heidegger), e come atto in potenza. Bianca Cerrina Feroni e Melania Rossi hanno fatto in modo che le piccole e ineffabili utopie degli artisti in mostra prendessero (comunque) il sopravvento sulla realtà, conciliandole in una dimensione altra che piano piano si svela e rivela attraverso quel microcosmo magico ed eclettico del luogo: un universo transitorio colto attraverso la sostanza della poesia, unico barlume di assoluto. Uno spazio d’azione poetica che dalle ragnatele incessantemente oniriche che accarezzano le crocchie erotiche di Bellmer, si perde nelle temporali geografie di cenere di Sophie Ko, per riaccendersi nell’Ora blu della penna di Fabre che cola dalle cime eterne dell’Himalaya. Delicato e fuggevole. E non potrebbe essere altrimenti, come non lo sarebbe pensare di dedicare a una tessitura espositiva del genere uno spazio differente da quello etnico, eclettico, stile Fortuny, della “dimora” di Heiby e Gioele Romanelli. La forza della mostra sta nella sottile cura della sostanza sprigionata da ogni sottile opera grafica. Sia miraggio, chimera o desiderio. Sia l’idea cangiante e sfuggente, non ancora fissata sulla terra. Tre livelli -piano terra, il purgatorio ascensionale delle scale e il piano nobile- per risolvere quelle infinite possibilità della creazione dove convivono idee libere e pure. La capacità è stata quella di elaborare in maniera seria e precisa il concetto “utopico” senza perdere quella poesia che permea il tutto filtrando tra i riverberi opalescenti dei vetri a rullo. Un collante fluido che dalle piccole idee in divenire (siano disegni, collage, maquette) abbracci in uno spazio “superiore”, ai labili limiti dell’ideale, il già indefinito spazio di ricerca irrealizzato degli artisti, una matrice comune che superi soggetti e secoli per attestarsi alle tappezzerie dell’albergo, divenuto casa dei sogni. Uno struggimento romantico, nelle più elevate tinte e tonalità del termine.
Luca Zuccala. Il filo rosso che lega e dispiega le opere in mostra è la ricerca dell’utopia attraverso lavori che non hanno mai visto il proprio completo disvelamento, rivelazione, la propria manifestazione ideale, visionaria. Raccontami della genesi della mostra, come hai tessuto questo filo rosso, la scelta delle opere… C’è uno slancio comune alla base di questi progetti utopici? In che mondo aleggia l’utopia?
Bianca Cerrina Feroni. Al momento di costruire la mostra assieme a Melania Rossi, i progetti dei vari artisti hanno mostrato un’evidenza. I sogni nel cassetto sono utopie pure che non si sono ancora scontrate con le complicazioni della realtà. Seguendo questa linea ci siamo imbattute in visioni che, pur appartenendo solo all’immaginazione, non sono completamente distaccate dalla realtà. Queste visioni in fondo partono proprio dal confronto con il mondo. Pur oltrepassandolo, ne riflettono le tematiche. Sono immagini poetiche che scatenano l’immaginazione.
Hai privilegiato un’utopia piuttosto che un’altra? Hai cercato anche te a tua volta un’utopia che le conciliasse tutte assieme, le hai lasciate spontaneamente interagire? In modo che il visitatore fosse libero di sposarle o respingerle, o solamente immaginarle…
Non volevamo fare un allestimento troppo didattico in cui separare i diversi nuclei. Abbiamo lasciato che le opere si mescolassero tra loro e con il luogo, già di per sé ricco di storia.
Lo spazio espositivo, Hotel Novecento. Immagino il primo impatto destabilizzante, un respiro, un esplorare e sondare il luogo, un realizzare che non c’è forse al mondo uno spazio così efficace per svolgere, fondere e assimilare ricerche di utopie…
La scelta di Novecento è nata dalla volontà di rispettare l’intimità di queste opere che dall’atelier dell’artista sono arrivate al contatto con il pubblico. Ci è sembrato che lo spazio abitato e già vissuto di un palazzo storico veneziano sottolineasse al meglio questo aspetto.
Rispetto al tema della Biennale, i tempi liquidi e precari di May you live in interesting times, in mostra ci libriamo in uno spazio impalpabile fuori da qualsiasi concetto di tempo e spazio. Come si “muovono” e come si accordano le opere tra loro?
L’utopia è declinata nelle sfide della contemporaneità. Gli artisti ovviamente lavorano e sono sensibili al proprio tempo. Tutte le opere vanno lette come “attivatori d’immaginari” che non pretendono di dare soluzioni, ma giusto di rendere visibili le spinte che attraversano la nostra epoca.
Ti sembra sia mutata la funzione originaria dell’hotel con il materializzarsi della mostra? Da semplice luogo fuggevole dove avventurarsi qualche notte a stabile casa dei sogni…
Novecento si è trasformato in un palazzo di un collezionista un po’ eclettico che ha saputo coltivare i propri sogni. Non è una descrizione molto lontana dal vero tra l’altro poiché i Romanelli, proprietari del luogo, sono da sempre appassionati d’arte e di cultura e questo si coglie in ogni oggetto, in ogni tessuto che rende il luogo così particolare.
Hai raccolto in senso lato (e astratto) le opere in quel mondo fragile e sottile dell’incompiuto, un universo delle infinite possibilità della creazione dove convivono idee pure e libere. Di che universo si tratta?
Avvicinarsi alla creazione è sempre travolgente. immaginare che su molte opere ci fosse la traccia della prima idea che aveva poi dato origine a altre opere più compiute è un privilegio. Le lastre di rame sulle quali Hans Bellmer ha tracciato i suoi corpi deformati sono le matrici da cui sono poi nate molte opere che hanno avuto fortuna. Ma quelle sono le prime tracce, i primi segni di quella che è stata poi una rivoluzione nel modo di concepire il corpo come un luogo attraversato dai desideri più profondi.
Che temi affrontano le opere? Quali i rimandi al contemporaneo?
Lavorando sulla scelta delle opere si sono delineate diverse declinazioni dell’utopia. Confini, migrazioni, fugacità dell’immagini, ridefinizione dell’identità sono tutti temi sui quali riflettere in una società, come la nostra, in piena ridefinizione. Delphine Valli sintetizza l’idea di confine e ci fa riflettere sulle implicazioni politiche di una semplice linea. Francesco Arena, tracciando la distanza tra Sarajevo e la Puglia con degli oggetti utilizzati nel suo quotidiano suggerisce un altro modo di percepire la distanza. Le migrazioni sono un tema trasversale. I confini si allargano, Lo sky walker di Pietro Ruffo è un’allegoria poetica della ricerca di spazi nuovi da abitare. I rimandi storici presenti nel suo lavoro ci ricordano che l’impulso a cercare nuove terre è sempre esistito. Nella stessa direzione l’opera di Félicie d’Estienne d’Orves, una scultura collegata tramite satellite con marte, sposta l’orizzonte verso territori extra-terrestri. Sono sogni d’esplorazione di nuovi spazi, desideri di connessione con il cosmo. E’ molto emozionante vedere la scultura che si illumina nel momento esatto in cui sorge il sole su Marte. Non ci pensiamo mai, ma il fuso orario non riguarda solo il nostro pianeta. Noi guardavamo una tabella che ci indicava le ore di jet-leg tra noi e lo spazio per poter ammirare, sulla fragile scultura in cartone, la luce dell’alba su questo pianeta! Anche le opere di Jean Bedez (disegni) e Maud Maffei (pittura digitale) mostrano delle nuove cosmologie a cavallo tra passato e futuro.
Cosa accomuna opere e autori, come si sposano artisti e utopie tra loro?
Le diverse utopie sono attraversate da temi trasversali. L’oscillazione tra l’antico e il contemporaneo, la relazione con la tradizione per dirla con altre parole, è un altro tema che accomuna diverse opere. Come ci relazioniamo ai grandi cambiamenti della nostra epoca? cosa ci portiamo dietro per andare verso il futuro? La forza espressiva dei colori rinascimentali usati da Sophie Ko e Antonello Viola sono la traccia di un passato indelebile che si esprime nella materia. Non milioni di immagini, di riferimenti iconografici, ma un condensato simbolico di storia, il colore. Gérard Berréby con i suoi “libri feriti” ridotti a reliquie ci fa immediatamente rifletter sulla trasmissione della nostra cultura di post millennials.
Simone Pellegrini traccia i suoi “schizzi preparatori” proprio sui libri. Questi primi tratti, che danno l’impressione delle incisioni primitive, fanno un po’ da trait-d’union tra passato e futuro. Ma guardandoli attentamente ritroviamo le nostre identità fluide, liquide, in costante connessione. Il corpo è un magnifico luogo di proiezioni utopiche! attraverso di esso ogni trasformazione è possibile. I corpi androgini di Hans Bellmer e gli ibridi umano-animali di Cécile Reims lo mostrano. Il sesso in orbita di Damien MacDonald è uno dei casi in cui l’utopia sfiora la realtà. Benché non sia ancora stato sperimentato, sono sicura che presto ci arriveremo.
Il grande Jan Fabre, oltre a molta ispirazione, ci ha dato il colore, il blu, il colore dell’utopia. Ha detto che “i migliori progetti sono quelli mai realizzati”. in effetti ti immagini che belle le cime dei Pirenei ricoperte di BIC blu??!!