Germano Celant cura per Palazzo Reale di Milano un’antologica su Emilio Vedova. 60 opere delineano l’attività creativa dell’artista veneziano, concentrandosi sui Plurimi, i Dischi e i Tondi. Allestita nella splendida Sala delle Cariatidi grazie all’intervento dello studio Alvisi Kirimoto, la mostra è visitabile dal 6 dicembre 2019 al 9 febbraio 2020.
Una volta varcata la soglia della Sala delle Cariatidi è già troppo tardi. Prepararsi con anticipo – anche grazie ad un’anticamera biografica, con tanto di opere illustrative – affacciandosi con l’equilibrio giusto, forse non è sufficiente. L’arte di Emilio Vedova sconvolge, afferra l’orientamento e lo disseziona, come una mappa spezzettata e gettata confusamente nel mare. E proprio come onde fragorose, anche le pennellate scrosciano schiantandosi sulle sculture sospese, sulle tele appese, sui tondi eretti direttamente sul pavimento o appoggiati alla grande parete che taglia in diagonale la sala. Tutto è scontro e confusione controllata, anarchia espositiva e anarchia emozionale: sconvolti dalla magnificenza e trascinati dal colore, solo dopo aver superato l’abbagliante asserragliamento di opere possiamo lentamente riprendere fiato.
Realizziamo quindi che l’allestimento voluto dal curatore Germano Celant (che ha collaborato con Vedova fin dal 1984, anno della sua grande antologica veneziana) e dallo studio architettonico Alvisi Kirimoto divide in due l’imponente sala di Palazzo Reale, riunendo da una parte le opere degli anni ’60 (i Plurimi) e dall’altra quelle degli anni ’80 (i Dischi e i Tondi). A separarli una parete posta in diagonale, linea che crea movimento e anima la sala rettangolare; a sovrastarli una struttura metallica, appiglio per il sistema d’illuminazione e sostegno per alcune opere pendenti. Di più, probabilmente, non si poteva fare: da una parte perchè l’impatto emotivo è di indubbio effetto (come raccontato sopra), dall’altra perchè l’arte di Emilio Vedova è intimamente riluttante all’addomesticamento. Meglio lasciare scorrere le opere come atomi scontrosi lungo un torrente, per osservarle poi sedimentarsi sul letto del fiume una volta giunte nella sede espositiva.
Il processo creativo deve sempre ereditare la memoria di ciò che è già avvenuto al fine di dimenticarsene
Jacques Lacan. Psichiatra, psicoanalista e filosofo francese
Free standing è dunque la chiara linea espositiva, che segue il carattere ribelle dei quadri esposti e dell’artista che li ha realizzati. Ogni volta nell’atto creativo Emilio Vedova ha guardato alla superficie bianca della tela come all’insieme di tutta la storia dell’arte a lui precedente. Lungi dall’essere linda, questa portava gli invisibili segni di un peso difficile da estirpare: arte non è riempire il vuoto, arte è creare il vuoto. L’artista si è così fatto spazio nella memoria artistica scagliando pennellate affilate, o indugiando talvolta in ingombranti e dense eruzioni vulcaniche. E il risultato assomiglia infatti ad un tessuto magmatico, multiforme e scuro, attraente e spaventoso, ammaliante come un buco nero che promette verità e poi la nega per sempre. In qualsiasi forma si sia cristallizzata, l’arte di Vedova non appare mai doma, ma anzi si insinua violentemente nell’animo per diventare specchio del suo tormento.
E quindi, soprattutto nei Plurimi, il desiderio di superamento è evidente. Manifesto dell’approdo all’informale dell’artista, questi rompono – grazie alla flessibilità della loro strutture a cerniera – la consolidata staticità dell’opera d’arte, tirannicamente ancorata alla parete espositiva e di conseguenza alla debita distanza imposta al visitatore. I Plurimi si fanno al contrario carico di un’eccedenza vitale che li porta ad avvicinarsi a sculture – per via della forma snodabile e articolabile – e a dichiarare un conflitto inevitabile con un approccio tradizionale alla materia.
Questo viene ulteriormente accentuato nello sdoppiamento della prospettiva: recto e verso diventano entrambi sensibili a interventi pittorici e abili a spartirsi la scena, coinvolgendo chi li guarda in un’operazione di accerchiamento dell’opera che ne espande il riverbero. E da qui la possibilità di apprezzarne l’intarsio delle saette di giallo, delle fangose passate di grigio, del verde liberatorio e del viola sorprendente.
Lo scontro cromatico è ovviamente nucleo fondamentale della poetica di Vedova anche oltre gli anni ’60, quando giunge inalterato al momento dell’ideazione dei Dischi e dei Tondi – risalenti agli anni ’80. La conformazione circolare di questi lavori induce a pensare ad una ristrutturazione razionale dell’operare dell’artista, forse placato nella sua spinta eversiva e più placidamente votato ad una sintesi conciliante. Ciò che sicuramente non trova pace è la violenta valanga che risponde alla sua inspirazione, impossibilita a ridursi in forme geometriche stabilite e portata a liberarsi solo tramite profondi e rapidi colpi di pittura. In ogni opera questa si muove a dilatare lo spazio, ad infrangere limiti, a liberare l’incontenibile energia tramite cui perpetra la sua immanenza. Presente ma sfuggevole, l’arte di Vedova balla sul confine dell’infinita potenzialità, nonostante il quadro gli imponga una presunta immobilità.
Eppure, guardandolo una seconda volta, quel grumo di pittura non sembra più dove poco prima avremmo giurato di averlo visto.