Dal 17 dicembre al 9 febbraio il PAC (Padiglione dell’Arte Contemporanea) di Milano ospita una grandissima ricognizione, a cura di Eugenio Viola, sulle pratiche contemporanee dell’Australia. Una mostra intergenerazionale quella di Australia. Storie dagli antipodi, in cui i più disparati mezzi espressivi restituiscono un quadro complesso – che per lontananza geografica e culturale gli antichi Greci definivano agli Antipodi – e attraversato da questioni irrisolte.
The formation of a diaspora could be articulated as the quintessential journey into becoming; a process marked by incessant regroupings, recreations, and reiteration. Together these stressed actions strive to open up new spaces of discursive and performative postcolonial consciousness”
Senza dubbio le parole del grande curatore e intellettuale Okwui Enwezor (Calabar, Nigeria, 1963, Munich, 2019) sono esplicative rispetto a quella che Eugenio Viola (Napoli, 1975), curatore della mostra Australia. Storia dagli antipodi, preferisce definire “l’Arte in Australia, piuttosto che l’Arte australiana”. La necessità di delimitare la produzione contemporanea di un territorio (in questo caso addirittura un continente) attraverso confini geografici invece che nazionali, deriva dalla pluralità religiosa, linguistica, etnica, politica e culturale che vi soggiace. Ma è la storia a giocare il ruolo più importante, dato che l’Australia è stata, e continua ad essere, luogo di colonizzazioni, migrazioni e decolonizzazioni in cui purtroppo emarginazioni e razzismo non hanno fatto fatica ad emergere.
A confermare la complessità storica di tale Paese e il carattere ibrido di questa terra sono le radici culturali degli artisti in mostra, che spaziano dai cosiddetti australiani di discendenza europea, a quelli di nazionalità aborigena, sino alle nuove generazioni frutto delle migrazioni più recenti – non solo provenienti dal vecchio continente ma anche da Paesi asiatici, del Pacifico e dalle Americhe. Anche i medium sono i più disparati: dall’installazione ambientale al montaggio di documenti d’archivio e aneddoti culturali, dall’action painting alla scultura iperrealista, sino alla registrazione fotografica di performance.
Nelle sale del PAC (Padiglione d’Arte Contemporanea) si respira un’aria rarefatta, in cui le questioni storico-politiche legate alla colonizzazione dell’isola e la violazione dei diritti degli aborigeni sembrano irrisolte. Fantasmi della memoria si fanno presenze indelebili, tanto che lo spettatore, se occidentale, avverte un senso di colpa storico, sentendosi intruso e a tratti conquistatore. Jason Wing (1978, Sidney) espone una serigrafia del famoso busto in bronzo di James Cook (1728, Marton-in-Cleveland, United Kingdom,1779, Kealakekua Bay, Hawaii), primo esploratore dell’Australia nel 1768, che, se illuminato da una torcia UV, è denudato dal titolo di “Capitano” e appare con un passamontagna da malavitoso, che l’artista ha realizzato con inchiostro invisibile. Ask us what we want, still (2019) è il titolo dell’opera che l’artista australiano ha realizzato ad hoc per la mostra, rendendo il pubblico attivo complice di questo smascheramento. Lines that could be scars (2015) di Tom Nicholson (1973, Melbourne) è invece una risposta al disegno con cui John Webber (Londra, 1751, Londra, 1793) raffigura la prima intervista di James Cook ai nativi dell’isola. Nell’opera in mostra Nicholson produce una piccola porzione di linee che rimandano alle cicatrici sui corpi della popolazione aborigena, torturata dai colonizzatori europei.
Le prime esplorazioni inglesi, infatti, risalgono alla seconda metà del ‘700, e collimano nel 1786 con la trasformazione dell’isola in colonia penale del governo britannico, portando con sé torture, massacri e genocidi della popolazione locale. Così Mike Parr (Sidney,1945) in Rib Marking #1 e #14 solleva la questione dei Murri, uno dei 70 popoli aborigeni che abitavano l’Australia, mentre Yhonnie Scarce (Woomera, Australia, 1973) stampa fotografie d’epoca di famiglie aborigene su tessuti casalinghi (Remember Royalty, 2018), dichiarando che
Per quanto mi riguarda i miei nonni, i miei bisnonni, e le persone che hanno vissuto nel mio paese prima di me, sono i veri australiani.
Non mancano poi le polemiche rispetto alla commercializzazione della cultura aborigena, come dimostra l’installazione Native (2019) di Tony Albert (Townsville, 1981) che compone la scritta Native con elementi appartenenti all’immaginario dei souvenirs local, o ancora Ebony and Ivy face race (2016) in cui Destiny Deacon (Maryborough, 1957), richiamando il fermo immagine dei film, fotografa delle bambole dalla pelle bianca in posizione di autorità rispetto alle versioni aborigene e kitsch degli stessi giocattoli.
La tradizione dell’Arte aborigena risale a circa 60.000 anni fa, e fino ai tempi più recenti non si interseca con gallerie, negozi, o aste pubbliche. Fa parte di quella culture, anche molto sofisticate, nelle quali, per citare l’architetto e designer Ettore Sottsass (1917, Innsbruck, Austria, 2007, Milano) “scolpire sculture o dipingere storie non aveva e non ha come tappa finale il mercato, cioè una scultura o una pittura non finisce per diventare un “prodotto” ma si accontenta di segnalare storie segrete o memorie o visioni misteriose o anche pensieri speciali che non sarebbero mai apparsi in nessun momento, in nessun luogo del pianeta”. Quello che mettono in discussione molti artisti in mostra è piuttosto la commercializzazione di matrice occidentale dell’Arte aborigena, la produzione di Souverirs e la creazione di stereotipi per fini di mercato. Sempre in questa direzione si muovono Untitled (2019) di Daniel Boyd (Cairns, Australia, 1982) e A property dispute is turned into a race debate (2019) di Richard Bell (Charleville, Australia, 1953). Nel primo lavoro l’artista indaga il rapporto tra Modernismo e colonialismo, polemizzando l’atteggiamento di Henri Matisse (Le Cateau-Cambrésis, 1869, Nizza, 1954), rispetto alla negritudine. La riproduzione dello studio del pittore francese in acrilico e smalti, riporta alla luce le radici culturali della pratica espressionista, attraversata da continui “furti” alle popolazioni colonizzate. L’opera di Bell, invece, è incentrata sulle relazioni razziali in Australia, dipingendo, con lo stile della dot painting, sviluppatosi nel deserto centrale e divenuto lo stereotipo dell’arte aborigena, la scritta A property dispute is turned into a race debate.
Una sinfonia di opere d’arte quella di Australia. Storie dagli Antipodi, che affronta tematiche sociali urgenti, questioni razziali, di genere e di classe irrisolte, e riflessioni scomode del territorio australiano.
Informazioni
Australia. Storie dagli Antipodi
PAC
Via Palestro 14
Milano
a cura di Eugenio Viola
Lunedì 16.12 ore 12 PREVIEW STAMPA
ore 19 OPENING e PERFORMANCE TOWARDS A BLACK AMAZONIAN
SQUARE di Mike Parr
Martedì 17.12 ore 15–21
PERFORMANCE “SPECTRAL ARROWS” di Marco Fusinato
Mercoledì 18.12 ore 20:30
PROIEZIONE DEL FILM “TERROR NULLIUS” del collettivo Soda_Jerk
al MIC Museo Interattivo del Cinema di Milano
Giovedì 19.12 ore 19
VISITA GUIDATA con Eugenio Viola e Judith Blackall