L’artista Bruno Ceccobelli ricorda per ArtsLife la grande collezionista Bianca Lucherini Attolico, scomparsa a Roma nei giorni scorsi. E con lei 50 anni di storia dell’arte nella Capitale
Mi sento fortunato a raccontare queste poche ma care memorie su di un’amica per me particolare, collezionista caparbia, e sulla sua collezione, esemplare nel panorama nazionale, per la sua storia, lunga un secolo. Lei ci ha abbandonati da poco, all’età di 90 anni; è stata la regina dei salotti romani dell’Arte Contemporanea italiana, e con la sua storia si chiude anche un’epoca, quella della Roma da bere.
Bianca Lucherini Attolico era una signora molto colta, borghese, cocciuta, elegante, perspicace e scaltra, forte e coraggiosa. Era contro qualsiasi tabù, con una lingua tagliente ad uso di un linguaggio snob, il romanesco “compagnone”. Conobbi Bianca a Roma, a ventisette anni, verso la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80; è stata fra i primi miei collezionisti, e la prima nella mia città di adozione; lei viveva per le novità e parteggiava per le conoscenze privilegiate, insomma era alla ricerca di nuovi mondi, alla scoperta di quegli artisti di cui vantarsi.
Amava essere una pigmagliona, la prima in tutto, il bollettino delle “ultime notizie”, una vera primadonna delle tendenze, dominava i salotti romani attraverso il prestigio di artisti emergenti acquisiti, per convalidare quel suo “borsino” del mercato dell’Arte Contemporanea.
Insomma, fin dagli Ottanta, Bianca era una celebre influencer: ricordo che aveva un certo potere su gallerie tenute da sue amiche come Mara Coccia, Silvana Stipa, Milena Ugolini, Lia Rumma, Annina Nosei a N.Y., e dal suo amico Pino Casagrande. Per questo godeva dei favori degli artisti giovani.
All’inizio la sua collezione aveva un vasto background culturale, dovuto alla raccolta tradizionale di suo padre, arte totalmente italiana, figurativa, soprattutto delle Scuole Romane del diciannovesimo secolo. Poi Bianca, appena ereditò tutta la collezione paterna (quella che lei definì “la radice della sua vita”), e resasi indipendente dai doveri famigliari, arrivò a “travasare” diversamente quelle radici tradizionali, incominciò a innovare tutto con l’arte contemporanea degli anni Sessanta, l’Arte Povera.
Le piacevano gli affari, poter trattare… Aveva accumulato negli anni una grande collezione, centinaia di artisti; sulla scena dell’arte tutti ne parlavano, per gli artisti era importante esserci, per questo c’erano numerose invidie e maldicenze.
Amante dei pettegoli, sì, perché l’informazione per lei era sempre di parte, un valore di cui giovarsi. Spesso generosa e riconoscente, esprimeva elogi sperticati ad artisti e consigli a critici d’arte o galleristi o collezionisti, magari badando alla sua convenienza. Comprava e rivendeva, comprava mercanteggiando e rivendeva triplicando o quadruplicando, una reale vocazione per i suoi affari, ma così facendo valorizzava anche l’artista.
Era lei che stabiliva il Borsino dell’Arte, soprattutto dell’artista giovane sconosciuto, scovato miracolosamente solo da lei, e che sarebbe cresciuto sicuramente di prezzo; comprava anche chi era più in auge, ma al momento giusto; con ammiccamenti di mezzi sorrisi ti faceva capire quanto aveva trattato, e potevi esser certo che lei lo aveva avuto per poco. Insomma una fan dell’arte in generale: certo cambiava spesso le figurine, ma non quelle delle mode, a cui amava contrapporsi facendo valere il proprio gusto, con scelte nette, non solo piacevoli, ma anche con l’occhio di lince e da predatrice di potere. Perché l’opera d’arte per lei era poi un vero prezioso bottino da ostentare anche intellettualmente.
Fra gli artisti tra i più amati da lei, assieme al sottoscritto, c’erano Pirandello, Rosai, Donghi, Balla, Ziveri, Mafai, Carrà, De Chirico, Casorati, Campigli, Tozzi, Tosi , Birolli, Fontana, Schifano, Pascali, Manzoni, Lo Savio, Castellani, Kounellis, Calzolari, LeWitt, Alviani, Mauri, Kosuth, Ontani, Patella, Cucchi. Tutto il gruppo di San Lorenzo, Gallo, Nunzio, Dessì, Bianchi, Tirelli, Pizzi Cannella, e poi Mirri, Fogli, Lim, Di Stasio, Gandolfi, Cerone, Benassi, Pintaldi, Arienti, Toderi, Beecroft, Muniz, Sierra, Sislej Xhafa, Kiki Smith, Galindo, Muniz, Vedovamazzei, Monk, Kentridge, Emin, Tweedy, Hlobo, Jaar, Tillmans, Vezzoli…
Amava soprattutto opere materiche con soggetti forti e scandalosi, delle chicche, tanto che non c’era museo o casa d’aste o galleria che non avesse spesso bisogno di lei o per prestiti importanti per esposizioni internazionali o per acquisire quelle sue opere, considerate sempre scelte eccellenti. Perlopiù amava il rapporto diretto con gli artisti, girava per gli studi con un “assegnetto” mai postdatato, e “poi vieni da me a mangiare un boccone e mi porti l’opera, e mi consigli tu dove metterla”. Una volta a casa sua, finiva per farti realizzare una complicata installazione, per mezzo pomeriggio la tua opera veniva sempre spostata più volte, più in alto, più a destra, sopra, sotto, e altri quadri più datati, caduti in disgrazia, venivano eliminati, lei lo diceva in modo sottile… che erano quadri un po’ “nebbiosi, impolverati…”.
Faceva transitare mensilmente quadri e sculture a rotazione da una casa altra dei suoi possedimenti, da una parete all’altra, da un mobile all’altro; le superfici espositive andavano dall’ingresso ai corridoi, dalle scale alle sale da pranzo, dalle stanze al bagno, compresi i locali della servitù; i buchi dei muri e delle boiserie crescevano in modo esponenziale.
Di ogni artista comprava almeno tre o quattro opere, in modo che, a turno, ne potesse rivendere alcune e lasciarne almeno una a testimonianza dei suoi vecchi amori: era la sua una “economia circolare” che le permetteva di rinnovare sempre la sua “permanente” d’arte. Non era capricciosa, perché in tutto questo continuo turnover dimostrava il suo stile schietto, di un’arte mai disposta all’arredamento, ma capofila di un gusto deciso d’avanguardia con la scossa dei tempi. Quando doveva difendere la sua collezione, tra i commensali o nelle mostre, non esitava, si comportava come un giocatore algido ad un tavolo da poker. Scommetteva, rilanciava e bluffava sui suoi artisti preferiti, con grandi esclamazioni e vociate per attirare tutta l’attenzione degli astanti.
Spesso questi teatrini venivano inscenati nelle sue case di rappresentanza, nell’attico in Via dei Monti Parioli o nel loggione in Piazza della Torre dell’Olio a Spoleto. Tra gli invitati delle sue famose serate che dominavano la città, sempre cena in terrazza: naturalmente, nei discorsi sull’arte o altro ancora, era contro tutti, senza pietà. Se dicevi la tua, prima ti puntava con occhi corvini, lucidi, poi sorrideva amabilmente, calmissima, poi stava con la bocca larga, senza respiro per una frazione di secondo, a mo’ di suspense calcolato, come a dire “mo’ t’azzanno…”. Poi, sempre più vicina a te, ti attaccava d’impeto, come in uno starnuto, e lì le peggiori contumelie sulla tua ignoranza, secondo lei.
A queste serate di gala c’erano sempre tanti artisti, mischiava giovani e vecchi di vari stili, critici, collezionisti e galleristi, poeti e musicisti, scrittori e architetti, e molti medici come lo era suo padre, che aveva curato vari artisti romani. Nei suoi cenacoli mai ho potuto incontrare dei politici, e non sembrava amare principi e principesse; sì, erano lambiti da personaggi noti, ricordo Luca di Montezemolo, oppure ospiti da Milano o da New York, ma non li omaggiava. Sì perché lei parlava, parlava voracemente con tutti, solo di mostre, di opere, di musica, di poesie… E il resto lo ascoltava poco.
Il suo salotto lo curava bene, per colpire: metteva all’ingresso, sempre in prima fila, gli ultimi acquisti, in modo da creare il dibattito della serata… Ad attenderti, dopo molti squilli, c’erano sempre camerieri in livrea, e uno chef rinomato che appariva a metà cena: sempre indaffarati e preavvertiti, ma lei comunque si lamentava degli ordini precedenti a voce alta con tutti loro. Ma non lo faceva per trattarli male, solo per snoberia gigionesca, voleva contrapporre alla loro etichetta formale, il suo linguaggio romanesco: “Annamo un po’, ma che famo…”, per rendere tutti alleati verso il popolo. Era Carla, la sua devota amica, a frenarla e a guidarla timidamente, una presenza squisita, raffinata, sempre attenta a non farle mancare niente e a discolparla con semplici sorrisi.
Scoprire nelle aste quale artista stava facendo il prezzo più alto era per lei più importante delle previsioni del tempo, sapere chi fosse nelle chiacchiere, sulla cresta della onda, è stata sempre la sua specialità; intuiva perfettamente il “nuovo” astro in ascesa dai suoi quadri prorompenti.
L’ultima volta che l’ho incontrata fu ad ottobre 2019, alla mia mostra di sculture in marmo policromo a Spoleto a Palazzo Collicola, il museo della città… Di fronte ad una scultura si fermò in silenzio, incantata, e mi si rivolse con una commozione fino alle lacrime, esclamando: “Splendido, meraviglioso! Bruno! Ma che hai fatto!”. Anche io mi commossi, e le dissi: “Bianca! Tu sei sempre stata la mia seconda mamma d’elezione!”. Subito dopo, vispa, mi chiese il prezzo, io risposi titubante la cifra, e lei svelta con un sorriso interrogativo mi fece vedere le dita delle mani, in numero… la metà.
Bianca, io non te l’ho venduto quel pezzo: te lo porterò nel Paradiso dell’Arte, dove tu stai già organizzando un’altra collezione!
Bruno Ceccobelli