Non ci fosse stata la querelle Bugo-Morgan, se ne sarebbe parlato ancora di più. Le performance di Achille Lauro sono state l’attrazione più avvincente e intelligente di tutto il festival. Perchè tornarci ancora? Perchè non si tratta di un già visto, ma di una provocazione nuova e coraggiosa.
“Eh ma David Bowie? Eh ma Renato Zero? Ok, boomer.” Per essere sintetici e anche antipatici potremmo liquidare i commenti più in voga e diffusi sulle performance e i vestiti sfoggiati da Achille Lauro con queste due semplici parole. Ma quello che si è visto a Sanremo è qualcosa di davvero “diverso” anche considerando il contesto in cui si è consumato.
Andiamo subito al cuore della questione: è ben differente quello che hanno fatto Renato Zero e David Bowie da quello che ha fatto Lauro. Il perchè è presto detto, negli anni in cui Zero e Bowie si esibivano, la lotta per la liberazione sessuale del ’68 si era già consumata e la loro espressione fisica, sonora e identitaria era in piena sintonia con quello che il loro pubblico di riferimento desiderava, quello che voleva vedere, quello in cui voleva identificarsi. Certo non stiamo dicendo che sia stato facile per loro, la morale borghese la faceva ancora abbastanza da padrone e non poche critiche si sono tirati addosso. Ma i loro fan erano con loro. Erano una minoranza culturale, pronta per mostrarsi al mondo, e questo avvenne.
Il caso di Lauro è diverso, il suo background culturale è quello del rap/trap, il suo pubblico principale è ancora quello, è in quegli ambienti la mascolinità tossica se non è il principale elemento di distinzione e di identificazione poco ci manca, basta vedere le critiche fatte a Junior Cally nel pre-festival. Quindi Achille Lauro si è messo alla mercé del suo stesso pubblico, con il grosso rischio di essere vessato e ripudiato da quelli che prima lo ascoltavano, anche se va precisato che fin dagli esordi il cantante indossava vestiti da donna piuttosto di frequente.
Non va neanche fatto passare in secondo piano l’associazione dei suoi abiti, le sue performance e tutto il resto con il titolo della canzone “Me ne frego”. Celebre motto fascista svilito e svuotato della sua virilità ignorante e becera e trasformato in una frase liberatoria al servizio dell’identità qualsiasi essa sia. Come non va messo in secondo piano la contingenza di questo Sanremo in cui Amadeus, ci è sembrato di capire, ha apprezzato e scelto le sue co-conduttrici solo per una caratteristica. Lanciando un provocazione si potrebbe dire che ha fatto di più Lauro per le donne, con i suoi atti di disintossicazione maschile, che Diletta Leotta con il monologo sulla bellezza, pieno di stereotipi e banalità.