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Il mio Ligabue. Nostra intervista inedita a Flavio Bucci

Flavio Bucci nei panni di Antonio Ligabue Flavio Bucci nei panni di Antonio Ligabue
Flavio Bucci interpreta Antonio Ligabue
Flavio Bucci interpreta Antonio Ligabue

Una delle ultime interviste rilasciate dal grande attore Flavio Bucci, realizzata a Todi nel 2018. “Ligabue? Era una persona molto sola”

Detto ora, forse può suonare un po’ forzato, magari anche strumentalizzato per servire il tema trattato. Eppure vi posso assicurare che quando incontrai Flavio Buccimorto nei giorni scorsi all’età di 72 anni – per questa intervista, la prima riflessione che feci fra me e me fu che lui era giunto ad assomigliare al personaggio che l’aveva reso celebre dopo averlo interpretato nello sceneggiato televisivo RAI del 1977. Ovvero Antonio Ligabue, il grande pittore antesignano di quella che oggi chiamiamo Outsider Art.

Potrebbe anche essere il miglior complimento che si possa fare a un attore: l’essere a tal punto “entrato” nel personaggio fino ad assomigliargli, anche dopo 40 anni dall’averne vestiti i panni. Fatto sta che nel dehors dell’hotel di Todi dove alloggiava e dove mi aspettava per questa chiacchierata, mi ritrovai davanti qualcuno che “era” Ligabue, per come si possa immaginarlo avendo studiato il personaggio. Ritroso e timido, schivo, apparentemente burbero fino a sembrare un po’ selvaggio, anche nell’abbigliamento. Ma decisamente lucido e profondo, pur se palesemente insofferente del fatto che – gli era stato preannunciato – al centro dell’intervista ci sarebbe stata la sua performance in “Ligabue”, per lui evidentemente un vero tormentone…

 

Prima di interpretare Ligabue, lei aveva rapporti con le arti visive?
Io sono stato molto amico di Mario Schifano. Quando arrivai a Roma, andai ad abitare a Trastevere, e lì frequentavo questa Nouvelle Vague, nuove generazioni di creativi che coinvolgevano un po’ tutte le arti, attori, pittori, intellettuali diversi… Era un’Italia che cercava di rinascere, di farsi nuova…

E allora conosceva Antonio Ligabue?
No.

Chi fu a coinvolgerla nello sceneggiato?
Sai, il mio mestiere è molto complesso e semplice allo stesso tempo, per cui è difficile capire da chi parte un’idea, e come si muove poi. Forse io ero il giovane attore del momento, venivo da esperienze con un grande regista come Elio Petri, che è stato il mio maestro, con cui avevo fatto “La classe operaia va in Paradiso” e “La proprietà non è più un furto”. Credo ci si sia mossi in questa linea…

Flavio Bucci nei panni di Antonio Ligabue
Flavio Bucci nei panni di Antonio Ligabue

Da chi partì lo spunto per raccontare la vita di questo artista?
L’idea dello sceneggiato partì da Cesare Zavattini, il più grande sceneggiatore italiano, io direi anche europeo, in assoluto. Uno che ha raccontato la storia per immagini. Come avrebbe detto Totò, “una pietra emiliana” del cinema italiano. Esistevano due documentari su Ligabue, che io studiai a fondo: uno centrato sul personaggio, dove appariva lui in prima persona, un altro sulla pittura…

Aveva visto anche le sue opere?
Le vidi come dicevo grazie a questi documentari, il primo mi fu utile per preparare la mia parte, l’altro per conoscere le opere di Ligabue. Io non sono un pittore, per cui non sono uno che possa stabilire se fosse un grande artista o meno. Ma l’arte è di difficile analisi, critica o clinica: io mi compro un quadro se mi piace. Punto. Se poi ha un valore commerciale o meno, non lo so, ma neanche mi interessa. La lettura di certi valori sostanzialmente è quella che noi gli diamo, non quella che hanno. Comunque, io posso parlare dell’essere umano, e su quello mi sono concentrato, più che sulla sua opera…

Però lei dovette “diventare” artista, per le scene…
Beh, i dipinti in scena non li realizzavo io, magari li iniziavo… C’erano degli scenografi bravissimi, erano loro a ricostruire l’immaginario visivo di Ligabue…

Come si svolse la lavorazione?
Girammo praticamente tutto fra Gualtieri e Guastalla, durò circa tre mesi e mezzo. Fu girato quasi tutto all’aperto, perché com’è noto Ligabue non ha mai avuto una casa, viveva nella Pianura Padana, dove si era fatto una capanna, e si circondava di animali, che servivano anche per riscaldarlo…

E nei luoghi dove aveva vissuto c’era memoria di lui?
C’è una storia abbastanza curiosa: perché proprio a Gualtieri c’erano altri tre o quattro pittori contemporanei di Ligabue, e furono loro i suoi maggiori “nemici”. La popolazione sicuramente era molto partecipe, ma certo lui non era ancora riconosciuto come un grande artista. Lo chiamavano “il matto”…

Ma in Ligabue c’era questa vena di alienazione e di follia? Dopo averlo impersonato, lei che immagine ne conserva?
Di solitudine. Ma io sono convinto che in generale l’artista visivo sia estremamente solo. Raramente fra gli artisti troviamo esistenze lineari, o “normali”, come noi le intendiamo…

Massimo Mattioli

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