Martedì 25 febbraio è in calendario all’Università degli Studi di Genova un seminario che prende spunto dal libro “One day we must meet. Le sfide dell’arte e dell’architettura italiane in America (1933-1941)” di Sergio Cortesini. Con l’autore dialogano Francesco Cassata (storico) e Paola Valenti (storica dell’arte).
La cultura al servizio del potere, al fine di mitigare l’immagine bellicosa del regime fascista agli occhi della nazione americana, è il tema del libro di Sergio Cortesini dedicato alle mostre e alle grandi fiere ed esposizioni internazionali che hanno visto l’Italia in prima linea nel periodo interbellico.
Fin dai tempi di Lorenzo il Magnifico, quando un gruppo di pittori fiorentini venne inviato a decorare la Cappella Sistina in segno di riconciliazione tra Firenze e il Papa, l’arte e l’architettura sono state usate come strumenti di propaganda per favorire interessi politici superiori: una pratica che si è consolidata nel corso del XX secolo con l’avvento in Europa dei regimi totalitari.
Prendendo in esame il periodo compreso tra il 1933 e il 1941, dall’inizio della presidenza di Franklin Delano Roosevelt all’ingresso degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale, Sergio Cortesini ripercorre la parabola della cultura italiana in America e ci fa rivivere il clima di un’epoca, segnata dalla sfavillante industria cinematografica hollywoodiana, dai cantieri che ridisegnano il volto di metropoli in continua espansione, dall’avanzamento tecnologico con le sue infrastrutture simili a ginnasti giganti, dall’alto tenore di vita simboleggiato dal fiume di automobili lungo Park Avenue.
Animati da una vocazione modernista, gli intellettuali italiani di quegli anni, fascisti o apolitici che fossero, incoraggiano scambi sempre più intensi con gli Stati Uniti, intuendo l’opportunità che tra il mito dell’America come civiltà agli albori e quello del fascismo come ringiovanimento spirituale della nazione potesse crearsi una sorta di comunanza etica, basata sui valori di dinamismo, attivismo, volontà di conquista e ascesa, culto della giovinezza.
Pur in mancanza di un vero e proprio programma di diplomazia legata all’arte, Mussolini ne incoraggia implicitamente l’uso con l’obiettivo di guadagnarsi le simpatie e il consenso degli americani, ben consapevole di poter contare su gran parte delle comunità di emigrati italiani come gruppi di opinione e pressione politica. Il governo fascista sostiene e sfrutta pragmaticamente tutte le opportunità che gli si presentano: da un lato le iniziative private che fanno capo a personaggi intraprendenti come Dario Sabatello, la contessa Mimì Pecci Blunt e Michele Busiri Vici, dall’altro gli impegni ufficiali in occasione degli eventi fieristici ed espositivi internazionali, come la Century of Progress World’s Fair di Chicago del 1933-1934, la Golden Gate International Exposition di San Francisco del 1939 e la New York World’s Fair del 1939-1940. L’architettura dei padiglioni, il design d’interni, le merci esposte sono la tangibile visualizzazione della volontà di affermazione di un regime che, in una continuità ideale con l’antica Roma e il Rinascimento, riafferma l’autorità culturale dell’Italia evocando l’immagine di un paese prospero e moderno, capace di ricoprire il ruolo di ago della bilancia nello scacchiere europeo.
Figura popolare già dal 1925, quando Margherita Sarfatti aveva dato alle stampe il best seller The Life of Benito Mussolini, protagonista di una pellicola agiografica prodotta dalla Columbia Pictures, sostenuto da un editore amico e influente come William Randolph Hearst, il Mussolini di cui l’America si invaghisce è un misto di qualità tipiche dell’eroe americano e di stereotipi associati al carattere latino: il redentore della nazione, il patriota, il self-made man, l’atleta, il Rodolfo Valentino in camicia nera, capace di liberare gli italiani dalla stagnazione del loro destino. Tanto che il presidente Roosevelt, a margine di un fruttuoso colloquio alla Casa Bianca nell’ottobre del 1937, rivolge a Vittorio Mussolini l’auspicio di incontrare presto il padre Benito: «One day we must meet».
Ma la storia è andata diversamente, e con la dichiarazione di guerra le ambizioni propagandistiche del regime sono rimaste frustrate. I padiglioni vengono demoliti e le opere d’arte rinchiuse nei depositi: né le grandiose mostre dei contemporanei – Casorati, Sironi, Levi, Carrà e de Chirico, tra gli altri – né il clamoroso successo del tour dedicato ai grandi maestri, che ha visto opere di Botticelli, Michelangelo, Tiziano, Raffaello, Verrocchio, Donatello protagoniste di avventurose traversate transatlantiche, sono state abbastanza per colmare il profondo divario per filosofie politiche, ragioni storiche e schieramenti diplomatici che separa Stati Uniti e Italia.
Con un taglio storico, il volume nasce da un’approfondita ricerca e analisi delle fonti, spesso inedite, in Italia e oltreoceano restituendo, attraverso la mediazione dell’arte, la genesi e il valore politico delle varie iniziative messe in campo e la risposta dell’opinione pubblica americana, in un quadro dettagliato che fotografa un’epoca.
Sergio Cortesini insegna Storia dell’arte contemporanea all’Università di Pisa. Tra i suoi interessi, il ruolo dell’arte moderna nella costruzione dell’identità nazionale italiana, in particolare nel contesto degli Stati Uniti del New Deal. Ha scritto anche su artisti del XX secolo, tra cui Emilio Vedova e Damien Hirst. È membro del CIRQUE (Centro interuniversitario di ricerca queer).
Il seminario si tiene nell’ambito del Dottorato in Studio e valorizzazione del patrimonio storico, artistico-architettonico e ambientale dell’Università degli Studi di Genova
Martedì 25 febbraio ore 15.00
Università degli Studi di Genova
Aula Magna, via Balbi 2
Ingresso libero
One day we must meet.
Le sfide dell’arte e dell’architettura italiane in America (1933-1941)
di Sergio Cortesini
Collana: Saggistica
ISBN: 978-88-6010-095-5
Pagine: 325
Prezzo: 28,00 €
Johan & Levi Editore