Dopo che la OMS ha dichiarato la pandemia globale, gallerie, musei e istituzioni d’arte e cultura hanno iniziato a chiudere in tutto il mondo. Nel frattempo anche le case d’asta, dopo le iniziali reticenze, sono state costrette a chiudere sedi e posticipare gran parte delle aste dei prossimi mesi, mentre l’intero calendario delle fiere è stato già ridisegnato almeno fino all’estate. Che impatto avrà il COVID-19 sul mercato dell’arte?
In realtà, è interessante guardare a ciò che si sta verificando a causa, o di reazione, alla pandemia, perché questo ci può offrire già importanti segnali su alcuni dei scenari che si potranno aprire al termine. Del resto, il termine stesso crisi nella sua origine etimologica dal greco antico, indica un punto di rottura, ma anche di svolta, dove tutto può volgersi al meglio o al peggio rispetto alla situazione precedente di “malattia”. Cosa comune a tutte le crisi è infatti quella di rivelare inevitabilmente alcuni difetti strutturali, di singoli mercati o interi sistemi.
L’ INSOSTENIBILE CALENDARIO DI UN’ECCESSIVA OFFERTA
Ora, uno degli aspetti più evidenti rivelatosi per primo è sicuramente l’ormai insostenibile affollamento di eventi compressi nel calendario globale dell’artworld, fra fiere, aste, biennali e innumerevoli openings ogni giorno, uno dopo l’altro in diverse parti del globo. Come advisor bisognerebbe seguire ed essere presente a tutto, ma è una caccia allo sfinimento. Il digital aiuta, ma almeno un 4/5 fiere all’anno andrebbero fatte sul campo, fra i 2 o 3 continenti, per tenersi aggiornati e rimanere nel “giro”.
Un “giro” da un impatto anche ambientale non da poco, fra i voli e spostamenti di merci e persone implicate. Tema che solo recentemente l’art world a iniziato a porsi, parallelamente a tanti altri settori che si stanno oggi confrontando con la sostenibilità ambientale delle proprie attività.
Appena c’è stato l’annuncio delle prime posticipazioni, è partito intanto un gioco ad incastri per trovare spazio nel mesi successivi.
Ma, ora che gran parte degli eventi è stata rimandata fra l’estate all’autunno, le cose sono due: o avremo un’orgia di fiere e aste in contemporanea a cui probabilmente parteciperanno solo il pubblico e i dealer locali – perchè è di fatto impossibile, anche per le più grandi gallerie, avere le risorse (di personale ed economiche) per seguire 4 fiere contemporaneamente, e al contempo sostenere in aste in vari continenti i propri artisti o assistere clienti) – o si deciderà di cancellarne per quest’anno qualcuna.
Sarà magari il destino di molte fiere quello di finire digital, segnando per tali organizzazioni un nuovo capitolo di rinnovamento pratiche? Il successo (o la deblacle finale) di Art Basel Hong Kong online in questi giorni (20-25 Marzo accesso pubblico online) sarà sicuramente un elemento importante di conferma dell’efficacia, o meno, di questa soluzione.
Ma la vera domanda è: sarà il mercato in grado di assorbire tutto ciò, aldilà del momento e della “piattaforma”?
Ed ecco il vero punto critico, forse, della rapida crescita del mercato dell’arte globale, in poco più di un decennio: un’eccesso dell’offerta, rispetto alla domanda.
Si parla in questi giorni che il COVID-19 stia aprendo il mondo dell’arte alle opportunità offerte dal digital e online. Ma aldilà dei musei Italiani che hanno accelerato (finalmente) la messa online dei loro contenuti a pari di altre istituzioni internazionali, mi pare che anche il web e digital sia abbastanza affollato.
Su artsy, artnet, barneby’s, invaluable e mille altre piattaforme è da tempo possibile acquistare online da gallerie e aste online, e soprattutto queste ultime hanno visto una crescita notevole nell’ultimo periodo ovunque nel mondo, anche in Italia. Secondo l’ Hiscox Online Art il mercato online valeva $4.64 miliardi nel 2018, con una crescita del +9.8%, comunque minore rispetto al 2017 quanto era stata del +12%.
La stessa comunicazione dell’arte online in Italia dopo alcuni giorni era semplice intasamento social con contenuti poco significativi.
Significativo che gallerie internazionali, che già da tempo hanno sviluppato ottimamente la loro comunicazione social o online, non abbiano invece minimamente modificato strategie di comunicazione o volume di contenuti.
Intanto Artnet ha però brillantemente cambiato la propria rubrica settimanale “Editors’ Picks: Things Not to Miss in New York this week” con… “in the Virtual Art World This Week”: un’invito a stare a casa senza rinunciare all’arte, come tante campagne promosse anche nel nostro paese in questo periodo con l’hashtag #iostoacasa ma #l’artenonsiferma.
Tutto molto bello, tutto molto accessible.
Ma la vera domanda è: ci sarà davvero tutta questa euforia d’acquistare, al termine di questa crisi? Le gallerie ( chi resisterà a questo duro periodo di paralisi ) avranno ancora le risorse da investire in fiere o nella rivoluzione digital del business, quando dovranno affrontare altri mesi duri di assai probabile recessione?
L’ALTRA PROSPETTIVA: RISCOPRIRE L’ARTE COME RISORSA DI VALORE (E LIQUIDITÁ)
Se vogliamo considerare la questione dal lato ottimista, possiamo cambiare prospettiva. Infatti, se guardiamo al crollo delle borse nelle ultime settimane, ciò pare stia dimostrando a molti come l’arte possa essere invece una buona riserva di valore, meglio ancora dell’oro, che resiste molto di più ai così detti “cigni neri” rispetto ad altre forme di investimento. L’auspicio è quindi che tanti collezionisti facciano questo ragionamento: meglio mettere i soldi in un possedimento fisico, di cui posso godere, e che, anche se non di rapido o facilmente liquidabile rendita, perlomeno mantiene in genere valore nel tempo se frutto di un’acquisizione consapevole, lungimirante o semplicemente ben consigliata.
D’altra parte, vari collezionisti, in questi giorni chiusi in casa, stanno guardando alle proprie pareti e considerando la vendita di alcune opere in cambio di liquidità, che anche se non serve subito, potrebbe tornare utile nei tempi duri che si prospettano.
Un boom di consignment si sta quindi verificando nelle ultime settimane, anche per opere alquanto importanti che tornano sul mercato, soprattutto per trattative in privato, essendo del resto gallerie e aste rinviate o a rilento.
“Sell the house, Sell the Car, Sell the kids” era la scritta di una nota opera di Christopher Wool Apocalypse Now (1988). Ma ora pare sia il momento anche di Sell the Art.
E Wool è forse uno dei primi, visto il boom di anni fa ormai smorzato, a essere nelle scelte di opere da mettere sul mercato.
Nota positiva: se si stava lamentando la mancanza sul mercato di opere di alta qualità, questo molto probabilmente cambierà nei prossimi mesi con veri masterpieces immessi per necessità, o paura.
In sistemi più sofisticati come quello americano dove l’art lending è realtà ormai affermata, molti HNWI stanno invece puntando ad ottenere liquidità tramite tale strumento, senza alcuna necessità di vendere: da quanto riportato infatti da Boomerang lunedì scorso, quando i prezzi del petrolio sono scesi del 30%, Fine Art Group (nota compagnia che offre prestiti con opere d’arte come collateral) ha ricevuto una richiesta di finanziamento di $10 milioni sulla base del valore di un dipinto di Jean-Michel Basquiat in possesso dei richiedenti. E questa, a detta delle dichiarazioni del gruppo, è solo una delle tante richieste ricevute agli ultimi giorni.
Tali servizi stavano già vedendo in atto un trend di crescita notevole, che sicuramente farà ora una accelerata: saliti del +40% dal 2016, nel 2019 il loro valore totale era già di $21 miliardi (2019 Art & Finance Report di Deloitte). Del resto, come notava sui qualche giorno fa Elizabeth von Habsburg, managing director di Winston Art Group in New York, i clienti stanno giustamente pensando che con le aste rinviate e le gallerie chiuse ovunque, tali opere saranno fuori dai giochi del mercato per un po’. Ricordiamo il grande vantaggio poi in USA di questa soluzione ( a differenza di quanto accade in Europa per le poche realtà dove viene offerta) : Il collezionista può in genere mantenere “possession” dell’opera . Mentre ottiene denaro da essa, può quindi continuare a goderne tranquillamente dal suo divano di casa.
Ma a quanto pare non solo solo i privati a richiedere finanziamenti. Le stesse gallerie (ovviamente parliamo delle maggiori, che possiedono opere da milioni) in molti casi pare si stiano attrezzando per capitalizzare in tal modo il proprio magazzino.
Nota dolente del giochino: pare che comunque le opere vengano ora valutate a ribasso. Artemus, per esempio, al momento offre solo prestiti di un massimo del 40% del valore, con un ribasso nelle stime del -20/30% rispetto un mese fa, e esigendo possesso fisico dell’opera.
Ma anche con tali misure, sarà tutto ciò sostenibile? La paura è che si stia creando solo una nuova bolla, che potrebbe essere autodistruttiva per lo stesso mercato dell’arte se anche le gallerie iniziano a parteciparvi. Il recente scandalo di Inigo Philbrick, la più grande frode nel mondo dell’arte ad oggi, ci ha già dimostrato i rischi del legame arte e finanza, quando le opere vengono trattate solo in termini finanziari.
CORONAVIRUS: UN ATTO DI BILANCIAMENTO, O IL DEFINITIVO ART CANNIBALISM?
E se lo stato di New York ha già annunciato misure a sostegno delle piccole medio imprese, di cui beneficeranno anche piccole e medio gallerie in città, le gallerie e dealers italiani pare potranno invece per lo meno godere di versamento d’iva e tributi sospesi fino a giugno dall’ultimo decreto Cura approvato in data 17 marzo. Comunque, ricordiamo, si tratta solo di una sospensione e non una cancellazione dei tributi, che dovranno comunque essere corrisposti in un’unica soluzione entro il 31 maggio, oppure mediante rateizzazione fino a un massimo di 5 rate mensili di pari importo a decorrere da maggio. Provvedimenti specifici a sostegno di un sistema già fragile del mercato dell’arte italiana paiono essere del resto del tutto assenti fra le misure a sostegno dell’arte e cultura previste dal decreto di Franceschini emanato negli ultimi giorni.
Tim Schneider nel suo settimanale editoriale “grey-market” ha cinicamente parlato di due uniche sicure conseguenze alla presente situazione: un atto di bilanciamento, o un affermarsi di un “art cannibalism”, che già prospettava all’orizzonte, con l’accentrasi sempre più di potere, risorse, artisti e estate, e visibilità verso il centro dei grandi players del settore (le mega e le case d’asta leaders), con il conseguente collassare della periferia.
D’altra parte, Art Market Report 2020 di Art Basel e UBS, uscito pochi giorni fa, ci segnala un 2019 già in caduta, con una perdita del -5% totale rispetto all’anno precedente, spartita fra i vari mercati UK (-9%), USA (-5%) e ovviamente quello Cinese (-10%), che è quello che ha sofferto di più fra le crescenti tensioni della trade war di Trump, le rivolte a Hong Kong e da ultimo il coronavirus che si è abbattuto su tale continente per primo. Secondo l’ultimo Artnet Intelligence Report le perdite sarebbero addirittura il doppio (-11%) rispetto l’anno precedente, con USA e UK intorno ai -20% e Cina -5%, mentre gli unici mercati in crescita, curiosamente, risulterebbero Francia (+49%) e Italia (+28%).
Ora, aldilà dei numeri (che vediamo fra l’altro già differire da report a report anche se usciti negli stessi giorni) ciò che è davvero a rischio, oggi in questa crisi più che mai, è un già vulnerabile ecosistema di players a vari livelli, che contribuiva a rendere in qualche modo sana e fertile una filiera creativa e artistica che possa dare spazio a ricerca, sperimentazione, innovazione e riflessione, senza che la produzione artistica di oggi si omologhi a un unico “stile” blockbuster globale, dettato unicamente da imperativi di mercato e dai maggiori “power brands”.
Una cosa è certa: questa quarantena e paralisi forzata, obbligherà chiunque nel mondo dell’arte, qualunque ruolo abbia o a qualunque livello sia nella filiera di “valore”, a un momento di riflessione. E questo sarà decisivo nel determinare anche chi, e con che modalità rimarrà, all’interno di uno scenario inevitabilmente non più come prima. Rimane quindi forse proprio a noi, operatori, gran parte della responsabilità nel definire che tipo di svolta, positiva o negativa, determinerà questa crisi, rispetto alla situazione precedente. Una situazione precedente che stava forse già incubando, e non del tutto asintomatica, la “malattia”.