Torino, 1935: il sottoscritto si affaccia alla vita, mentre Carlo Levi approda ad Aliano, in Lucania. Sovente mi sono sentito chiedere se sono parente di Primo Levi. Meno sovente – perché non tutti, soprattutto i giovani, sanno chi è – se lo sono del pittore e scrittore Carlo Levi. Non lo sono di nessuno dei due, benché abbia avuto modo di conoscerli entrambi.
Nel 1945 entrò nella biblioteca di casa mia Cristo si è fermato a Eboli, scritto appunto da Carlo Levi. Non ancora nell’edizione della Giulio Einaudi di Torino, ma a puntate, sui primi numeri del mensile Il Ponte di Firenze, diretto da Piero Calamandrei. Una narrazione struggente, una cronaca oggettiva di vita – non un’invenzione letteraria – nella terra di Lucania, amata e sempre presente nella generosità civile dell’autore. Nel 1935 era approdato ad Aliano, vicino a Matera, confinato dal regime fascista, in assoluto isolamento. Era stato denunciato dallo scrittore Pitigrilli, spia dell’OVRA – acronimo di Opera Vigilanza Repressione Antifascismo, ossia la polizia segreta del regime – che si era intrufolato nel gruppo antifascista torinese di Giustizia e libertà. Gesto infame, portato a termine solo per
denaro. Quell’esperienza punitiva fu per Levi un’occasione straordinaria, che gli fece scoprire un mondo contadino civile e nobile nell’ospitalità. Una società dall’animo antico, del tutto ignota e ignorata, forse persino da Cristo; fino a che non fu raccontata per iscritto, dieci anni dopo. E, ovviamente, in un’ampia serie di preziosi dipinti nella chiave espressiva del Realismo Sociale.
Ho conosciuto Carlo Levi nel 1950, ad Alassio. Aveva una villa in collina per l’estate. La si raggiungeva a piedi, lungo un sentiero tra piante d’ulivo. Era un delizioso affabulatore, dal quale era impossibile distrarsi. Ero ospite di suo nipote Andrea. Di sera, dopo la giornata in spiaggia, giocavamo a ping pong. Invece, l’ultima volta che l’ho incontrato è stato all’inizio degli anni Settanta, nella sua ampia casa-atelier di Roma. Ero al corrente della sua cecità, causata da un distacco di retina. Dopo alcuni mesi in ospedale era tornato, in apparenza, alla vita normale. Portava un paio di occhialini neri. Mi ha salutato con gentilezza, poi mi mostrato il marchingegno che usava per scrivere al buio. Aveva dato precise indicazioni a un falegname per realizzare un telaio di fili di paralleli in metallo. Lo soprapponeva alla pagina e scriveva, riga per riga, seguendone il tracciato.
Questo tutt’intorno buio verrà pubblicato dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 1975, da Giulio Einaudi con il titolo Quaderno a cancelli. Si tratta di una una narrazione di visioni intermittenti, che ci consegna l’essenza profonda di un’ironia disincantata e di una mirabile luminosità interiore. Come in un diario di ricordi, ogni foglio è datato. Vi è sotteso il desiderio del pittore di sostituire segni e colori con l’espressività poetica.
11.3 .73
Se cerchi di notare l’approssimato
segno di ciò che di per sé è ombra
dell’approssimazione, scolorire
ogni forma vi vedi, ogni sembiante
ogni colore, ogni fatto, ogni evento;
ma quel grigio che adoperi e che ingombra
col suo peso la tela, somigliante
come potrà (muro, siepe) apparire
all’opaca apatia dello spavento?
Il volume einaudiano è stato dato alle stampe nel 1979 grazie a Linuccia Saba, figlia di Umberto, tenace e determinata a far conoscere la vulcanica espressività poetica di Carlo Levi, da decenni suo compagno di vita. Lava incandescente di un ebreo ateo, che non avverte alcuna necessità di ricevere segnali di risposta da Dio per le ingiustizie subite. Carlo Levi non si lamenta e non pone alcun limite di tempo e di spazio al suo riferire. Penso ai Sommersi e Salvati di Primo Levi, e ne uso la struggente titolazione: Carlo Levi cieco, sommerso nel buio, si è salvato grazie al suo quaderno a cancelli, che ha consentito alla sua mente di liberarsi.