L’artista Stefano Cagol e le sue riflessioni di artista “recluso” al tempo del Coronavirus. Diari letterari tra confessioni e speranze, intimi e riflessivi
Non era mai successo. Nemmeno il coprifuoco della Guerra Mondiale era così rigido: tutti a casa, mattina, sera, notte. E non era mai successo che il rapporto, il contatto con l’”altro”, imprescindibile regola del vivere contemporaneo, diventasse il nostro peggior nemico. Ci voleva un pericolo invisibile, ancor più minaccioso proprio perché impalpabile, per costringerci a fare qualcosa che ormai non facciamo più: guardarci dentro. Vivere solo con noi stessi. Un riallineamento delle coscienze, che ci permette – o forse ci costringe – a rivedere certe cose con un’ottica diversa, più “pura”. Alcuni artisti italiani lo fanno con i lettori di ArtsLife: diari letterari tra confessioni e speranze, intimi e riflessivi, un ripensamento dell’arte come scelta di vita sociale. Dopo il contributo di Bruno Ceccobelli, spazio alla penna di Stefano Cagol (1969)…
Pensieri e sintesi. Tra tempo e influenze, attuali e antichissime
Le asperità del terreno. Con queste bisogna costantemente confrontarsi, va previsto l’andamento del percorso, i tratti nella natura che fa ombra o si apre a un sole accecante. Il vento contrario, gli eventi metereologici improvvisi. Poi si entra nei centri abitati, in certi punti si passa in mezzo ad ali di gente che ti osserva e della quale riesci a incrociare lo sguardo. Così concepisco l’essere artista oggi. Una competizione, una corsa, a piedi, in auto, con la mente, i mezzi e i modi cambiano, ma è sempre un rally, basato sulla resistenza e sulla capacità di vedere oltre.
Conta il tempo in tutte le “gare”, nell’arte e nella vita, si corre sempre in avanti. Ora, nell’era dell’emergenza Coronavirus, possiamo, dobbiamo fermarci. Nel momento in cui il nostro rapporto con lo spazio è costretto, anche la relazione con l’altra coordinata, quella del tempo, è messa in discussione. La percezione del tempo è uno dei nodi per capire quella che viene definita “la complessità del presente”. Dopo aver attirato da sempre l’attenzione di filosofi e scienziati, dai paradossi di Zenone e dei gemelli alle teorie di Kant, Bergson, Heidegger e Einstein. Siamo abituati a uno sguardo senza confini sul pianeta, che in questo frangente siamo stati costretti a sacrificare in modo drastico, ma la nostra visione temporale è – stranamente – molto ristretta. La storia si dimentica in fretta, quella del nostro secolo, quella dell’uomo. Mentre le ere geologiche nel nostro immaginario sono entità tanto lontane da essere difficili da cogliere.
Ho usato il termine tempo nel titolo del mio progetto, ancora in corso, con il quale ho vinto l’Italian Council. Quello iniziato con una residenza fino a inizio febbraio a Berlino, mentre il programma del seguito a Gerusalemme, Roma e Venezia per forza di cose si dilungherà. Il titolo è “Il Tempo del Diluvio”, dove il diluvio universale è quel fenomeno tanto comune all’immaginario di molte culture quanto lontano e inafferrabile, che può riassumere bene l’insieme di quei fenomeni vischiosi, diffusi, magmatici e interrogativi, che caratterizzano l’oggi, come il cambio climatico e la diffusione di un virus. Il filosofo anglo-americano Timothy Morton definisce così gli “iperoggetti” e nella mia ricerca ho iniziato a confrontarmi con questo tipo di fenomeni già da vent’anni.
Nella mostra conclusa solo alcuni mesi fa al museo MA*GA di Gallarate a cura di Alessandro Castiglioni abbiamo deciso di partire con un’opera che ora molti mei amici fiamminghi ricordano come profetica: “FLU POWER FLU”, un grande neon, datato 2007 e rimasto per cinque anni sulla facciata del Beursschouwburg di Bruxelles.
Flu come influenza, non solo come virus fisico, ma anche mentale. L’ho reinstallata nell’emiciclo esterno del MA*GA, dove campeggiava come un monito, mentre la mostra s’intitolava appunto “Iperoggetto”. “Gli iperogggetti – scrive Morton, con una frase che calza perfettamente – ci costringono ad adottare strategie alle quali gli esseri umani che vivono l’epoca del capitalismo avanzato dei consumi non sono preparati”, ma soprattutto “essere dentro l’iperoggetto ha a che fare con il modo in cui l’iperoggetto distorce la mia idea di tempo”.
I miei progetti sono sempre concatenati e strettamente intrecciati. Dalla saga sull’influenza, della quale fa parte il furgone vuoto con la scritta cubitale “Bird flu Vogelgrippe”, che ha viaggiato fino alla 4° Biennale di Berlino nel 2006, arriviamo fino ad oggi. A “Il Tempo del Diluvio”, attraversando numerosi step, tutti leggibili alla luce di un’attenzione a interpretare e – importantissimo – anticipare i fenomeni della società, della natura e del trascendente.
Il diluvio può essere considerato un concetto-summa, anche di quanto stiamo vivendo. Evoca l’idea di una massa incontrollata capace di travolgere tutto, l’idea di sovversione, sviscerata con la curatrice Giorgia Calò – in occasione della conclusione della permanenza berlinese in un evento all’Istituto Italiano di Cultura di Berlino lo scorso febbraio – fin nell’etimologia del termine ebraico usato nella Genesi: mabùl.
A Berlino – oltre a una serie di azioni simboliche che sono sfociate in una trilogia di opere video – ho deciso di esporre in un’installazione un esemplare fossile di trilobite, l’essere vivente artropode più antico: l’ho affiancato al collage di un frammento di pochi millimetri di una miniatura della Genesi, ingranditi con un microscopio digitale.
Mi hanno chiesto se ho trovato il fossile sulle mie montagne, le Dolomiti. Da più di quindici anni la mia base, al rientro da ognuno dei miei viaggi e spostamenti intesi come esplorazioni-progetto, è in un paesino in Val di Non in Trentino al confine con il Südtirol, nel mezzo delle Alpi, dove mi trovo anche in questo momento, in quarantena: dalle finestre dello studio ho la vista diretta sulle Dolomiti di Brenta.
Le Alpi, ho dovuto presto imparare ad attraversarle.
Mio padre lavorava in Svizzera a Berna, dove si trasferì tutta la famiglia. Ero un bambino piccolo quando mio padre, indicando le cime candide delle montagne, mi diceva “Quelli sono i ghiacci eterni”. E quel termine, eterno, risuonava nelle mie orecchie come un qualcosa di assolutamente magico, tanto grande che non riuscivo a capirne la dimensione. Da questo ricordo e da quelle Alpi è arrivato il mio monolite di ghiaccio alla Biennale di Venezia, ”The Ice Monolith” (2013), che ho lasciato fondere sotto il sole della laguna.
Il fossile di trilobite, invece, non è dolomitico e nemmeno alpino. Le Dolomiti, che, certo, in tempi lontani sono state fondali marini, sono rilievi giovani: le Alpi appartengono all’ordine dei 30milioni di anni, mentre gli antichi artropodi trilobiti vissero sulla terra ben 500milioni di anni fa. I tempi geologici sorprendono.
Il diluvio che abbiamo in mente non è l’ultimo. E non è stato il primo. C’è stato un tempo, nel Triassico, in cui ha piovuto per 2milioni di anni.
Epoche incommensurabili, se comparate con la presenza dell’uomo sulla Terra. Siamo appena arrivati, abbiamo corso la nostra gara molto veloci e un diluvio, non solo d’acqua, è capace di sovvertire da un momento all’altro tutte le nostre certezze, le certezze di noi effimeri dominatori della cosiddetta “età dell’essere umano”, l’ormai noto Antropocene. Quelli che il filosofo Pier Aldo Rovatti definisce con un termine che mi piace molto: gli “egosauri”.
Stefano Cagol