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Guerriglia. La r-esistenza di Leonardo Petrucci, rimanere a galla nel mare di Roma

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2019 - Submansio VI - per il progetto Viandante - CNC su travertino - Viterbo - Courtesy Accademia Nazionale di San Luca
2019 – Submansio VI – per il progetto Viandante – CNC su travertino – Viterbo – Courtesy Accademia Nazionale di San Luca

GUERRIGLIA. Dialoghi d’arte contemporanea emergente nei suoi contesti di r-esistenza

*1 – Roma – Leonardo Petrucci

Leonardo Petrucci nasce a Grosseto nel 1986. Si forma all’Accademia di Belle Arti di Roma, laureandosi nel 2009 con una tesi in Storia dell’Arte dal titolo Arte dell’Alchimia e Alchimia dell’Arte. Da gennaio 2012 lavora nel suo studio presso il Pastificio Cerere nel quartiere di San Lorenzo a Roma.

La sua ricerca artistica si concentra attorno alla Geometria Sacra, l’Alchimia, la Cabala e l’Astrologia, interlacciate con tematiche più contemporanee e più scientifiche, come la Biologia, la Fisica Quantistica e l’Astronomia. L’approccio dell’artista con l’opera durante la sua realizzazione è quello di un alchimista con la trasmutazione della materia che si mette continuamente in gioco, cercando l’impossibile e realizzandolo attraverso creazioni di enigmi linguistici e matematici.

Qual è il tuo rapporto di r-esistenza con Roma, città in cui vivi, lavori e in cui hai compiuto i tuoi studi?

Vivere a Roma è una costante sfida, sia interna che esterna. Ogni abitante della città eterna deve quotidianamente misurarsi con il senso di autocritica e allo stesso tempo difendersi dalle critiche che provengono dall’esterno, da luoghi in cui tutto apparentemente sembra funzionare linearmente. Sembra oramai banale affermarlo, ma è proprio questa difficoltà nel rimanere a galla, che rende stimolante la vita artistica su cui ho voluto costruire la mia vita a Roma. Volendo descrivere con una metafora la mia r-esistenza in questa città, posso dire che è come se mi trovassi a nuotare in un mare, le cui profondità sono enormi, esattamente quanto sono grandi gli ostacoli che la riguardano, rispetto a situazioni geografiche ben più favorevoli, che a confronto risultano essere delle affascinanti pozzanghere.

Nel corso del tuo lavoro a Roma hai sviluppato diverse collaborazioni con gallerie, Accademie, altri artisti, oltre ad avere il tuo studio all’ex-Pastificio Cerere. Con che modalità ti approcci al sistema dell’arte romano e in che modo, se è così, senti di farne parte?

Le collaborazioni con le gallerie romane sono state fondamentali per ampliare il palcoscenico della mia ricerca, ad esempio per quanto riguarda la mia ultima mostra personale Once Upon a Time, presso la galleria Gilda Lavia, lo stimolo maggiore è derivato da un dialogo profondo e sincero con Gilda e Loretta, le quali hanno immediatamente compreso lo spirito del mio lavoro, gettando una solida base sulla quale costruire grandi progetti futuri. Altro discorso avviene per il luogo di lavoro; avere lo studio al Pastificio Cerere garantisce spesso uno scambio di tipo intellettuale e amicale con gli altri artisti che lo abitano, oltre ad avere una buona visibilità da un punto di vista geografico.

Impossibile non iniziare a parlare del tuo lavoro senza introdurre l’alchimia, concetto fondamentale per la tua ricerca. Un insieme ancestrale di scienze, volto alla ricerca della pietra filosofale e dell’elisir di lunga vita: una sorta di ricerca verso l’ignoto, verso un obiettivo di cui si suppone solamente l’esistenza. Nel tuo lavoro come viene interpretato questo tentativo di andare oltre, di reinterpretare confini fisici e psicologici?

Spesso si parla di alchimia in maniera errata, o meglio incompleta, poiché si tende a ridurre il vero senso della pratica alchemica a semplici rappresentazioni simboliche, quando forse il vero valore è la scarnificazione del simbolo stesso. Praticare alchimia presuppone una certa manipolazione della materia, da un punto di vista fisico, spirituale a mentale. Queste tre vie sono importanti nel mio lavoro, perché si aprono a diverse discipline e la sfida è quella di porle su un unico livello, fondendo e sublimando temi come l’astrofisica e la geometrica sacra, la matematica e la Cabala, suggerendo quando possibile un’altra prospettiva.

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2019 – The Immortal Game – installation view – Artissima 2019 con la galleria Gilda Lavia – alluminio, legno carbonizzato e semisfere di polistirolo, resina e acrilico – Ph Giorgio Benni – Courtesy Galleria Gilda Lavia

Un altro elemento fondamentale dell’alchimia è il tentativo di trasmutare i metalli in oro, una sorta di arbitrario atto di purificazione di una materia ritenuta contaminata. Qual è la tua interpretazione di questo passaggio contestualizzato nell’era geologica attuale, l’Antropocene?

Personalmente credo che gli alchimisti si siano sempre posti a fianco della natura. L’osservazione e la trasmutazione degli elementi, in particolar modo dei metalli, ha contribuito ad importanti scoperte scientifiche, che hanno rivoluzionato la vita dell’essere umano, come ad esempio la nascita della chimica. Sull’aspetto ecologico però penso che si debba fare un ragionamento di altro tipo. Se da una parte la bramosia di conoscere il mondo e le sue leggi, portava gli alchimisti ad un livello superiore di consapevolezza, dall’altra li allontanava dall’equilibrio millenario con cui la natura era stata forgiata. Oggi quindi ci troviamo a pagare un prezzo altissimo, che è la conseguenza di non aver considerato l’assottigliamento sempre più repentino del suddetto equilibrio, giungendo ad una spaccatura ai limiti della sopravvivenza umana. Probabilmente solo con un radicale evento in scala globale potremo invertire la rotta di questa autodistruzione, ne è un esempio la riappropriazione dei suoi spazi da parte della natura in questo momento di epidemia mondiale.

Oltre all’alchimia anche il tempo ricopre un ruolo importante nella tua ricerca. Come definiresti lo scorrere del tempo nella città eterna?

A Roma la percezione del tempo pare essere molto diversa da molte altre città, probabilmente per la sua sfacciata bellezza, che costringe ad alzare lo sguardo e non farci rendere conto di tutte le brutture che ci circondano quotidianamente, oppure perché Roma essendo una città disposta su vari livelli di stratificazione, ha una propagazione verticale anziché orizzontale, a differenza della maggior parte delle città del resto del mondo. Saper di poter camminare sul passato, sepolto ed intatto, influisce sulla dimensione geografica e storica, rafforzando l’inscindibile legame tra lo spazio ed il tempo.

In che modo la tua indagine sul tempo ti ha portato alla realizzazione della mostra Once Upon a Time tenutasi alla galleria Gilda Lavia di Roma lo scorso anno? E alla serie The immortal game?

Ho cercato di affrontare il tema del tempo in maniera trasversale, leggendo e studiano saggi di fisica come L’ordine del tempo di Carlo Rovelli o poemetti di T.S.Eliot, i Quattro quartetti. Il mio desiderio era di distruggere ogni certezza che abbiamo di fronte al grande enigma del tempo, creando cortocircuiti concettuali e fisici. Ciò che è emerso dai miei studi è stata la consapevolezza del fatto che, più l’uomo ritiene di avvicinarsi al concetto di tempo e più in realtà ci si allontana. Partendo quindi da questo aspetto quantistico, ho costruito tutta la mostra Once Upon a Time, un viaggio verso e attraverso la nostra conoscenza, che risulta essere anche la nostra ignoranza. Per l’opera The Immortal game, concepita durante un’esperienza ad Oulu in Finlandia e presentata poi alla fiera Artissima 2019, con la galleria Gilda Lavia, ho immaginato la sfida temporale che l’essere umano sta compiendo contro il cambiamento climatico ed il surriscaldamento globale, come una pericolosa sfida al gioco degli scacchi. Le pedine erano composte totalmente di ghiaccio bianco e nero ed il loro scioglimento ostacolava il normale svolgimento della partita, rilasciando sulla geografia della scacchiera delle tracce di un tempo oramai esaurito.

2019 - Once Upon a Time - Installation view 01 - galleria Gilda Lavia - Roma - Ph Giorgio Benni - Courtesy Galleria Gilda Lavia
2019 – Once Upon a Time – Installation view 01 – galleria Gilda Lavia – Roma – Ph Giorgio Benni – Courtesy Galleria Gilda Lavia

Uno dei tuoi ultimi lavori è parte del Progetto Viandante, promosso dall’Accademia Nazionale di San Luca di Roma. Come interpreti il rapporto con la religione e, più in generale, con lo spirituale nei confronti della città di Roma?

È evidente che vivere a Roma significhi anche vivere in stretto vicinato con la Città del Vaticano. Io credo che sia un dovere amare la nostra cultura e la nostra storia religiosa, esaltate da un senso critico e di responsabilità. È però normale che, come in qualsiasi condominio, ci possano essere delle divergenze tra buoni vicini. Il mio rapporto con la Chiesa e con la religione è esattamente così, un tacito accordo di distanza e allo stesso tempo di forte rispetto. Per quanto riguarda la spiritualità invece ne sono molto più attratto e grazie all’alchimia, che ne fa da collante, cerco di unirla a ricerche scientifiche attualmente inconfutabili. Per il Progetto Viandante, curato da Barbara Reggio, tramite l’Accademia Nazionale di San Luca e promosso dalla Regione Lazio, ho voluto sovrapporre proprio l’aspetto storico-religioso del cammino spirituale, ad uno più mistico-allegorico, rappresentato dal masso di travertino che ne compone l’opera, come una grossa pietra filosofale attraversabile, contenente parte del manoscritto di Sigerico, arcivescovo di Canterbury, il quale decretò le tappe che noi oggi conosciamo come Via Francigena.

Se dovessi descrivere la tua personale Via Francigena, quali potrebbero essere le tue tappe fondamentali?

Se per “Via Francigena personale” si intende un percorso strettamente legato alla mia formazione artistica, direi che le tappe fondamentali che hanno caratterizzato la mia crescita sono di varia natura. Dall’adolescenza passata a Grosseto, fino al trasferimento a Roma nel 2005, ho praticato karate al livello agonistico, ho cantato e suonato in tre gruppi musicali e studiato arte visiva, unica scelta, quest’ultima, che ho deciso di portare avanti per il resto della mia vita. Tutte e due le discipline abbandonate hanno ancora per me un forte valore artistico e filosofico, alle quali spesso attingo per risolvere alcune questioni legate al mio lavoro. La musica è secondo me l’espressione artistica più elevata ed universale, nonostante non esista alcun suono nell’universo, un paradosso. Mentre con l’arte marziale si parla di un’arte fiera, più legata alla difesa che all’attacco, un fondamentale esercizio fisico e mentale sull’attesa, che porto sempre con me. Dove poi mi porterà in futuro questa “Via Francigena” non posso e forse non voglio saperlo.

Il tuo modello di r-esistenza?

Ci sono molti modi per esistere e per resistere. Il mio modello è basato sulla sincerità intellettuale, studio, tanto studio, imparare la tecnica e fare il possibile per disimpararla al 90%. Cerco quasi sempre di non seguire le mode, anche a discapito dell’interesse da parte del mercato dell’arte e per questo negli ultimi anni trovo un piacevole e terapeutico rifugio nelle materie scientifiche.

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