Le ricerche artistiche che vanno dal secondo dopoguerra alla fine degli anni ’60, – grazie anche al rilancio delle maggiori avanguardie occidentali, dadaismo e futurismo- pongono al centro della loro poetica, alcuni dei concetti fondanti dell’arte occidentale: forma, materia, vuoto, spazio, tempo e anche lo stesso atto creativo vengono messi in discussione, per ricercare altre vie di fare arte.
Un contributo sostanziale alle sperimentazioni dei primi anni 50, è fornito dal gruppo Gutai, un’avanguardia artistica giapponese. Il gruppo utilizza liberamente i più inaspettati strumenti e mezzi espressivi e in questo modo offre un apporto originale alla rimessa in discussione dell’atto creativo, affermandosi come avanguardia artistica protagonista della scena internazionale.
Il “team” Gutai si forma durante lo svolgimento del Genbi, o “Comitato per l’arte contemporanea” risalente al 1952. Il Genbi, prevedeva la partecipazione di numerosi artisti di diverse generazioni, riuniti a dibattere sulle sorti dell’arte. Tra i partecipanti c’è anche Jiro Yoshihara, il quale proprio in questo contesto entra in contatto con alcuni degli artisti da cui si formerà il gruppo Gutai. La squadra prende coesione nel 1955, quando decide di presentare la prima mostra nel parco di Ashiya. Il luogo, così originale per ospitare una collettiva, rifiutando l’accademica collocazione di opere in un museo, si svolge “en plein air”, dando già un assaggio agli spettatori di ciò che il gruppo intendeva apportare all’arte: un salto in avanti, uno slancio verso la terza dimensione, verso il superamento della bidimensionalità di tela e cornice.
Il termine Gutai significa “concreto” -in opposizione al clima astratto-figurativo- e affonda le radici nell’Espressionismo astratto e nell’Informale. Il termine “concretezza” è inteso come ripudio della figura, perciò i temi su cui si concentra questa corrente sono l’atto creativo e i materiali. In particolare vengono sondati gli aspetti legati all’azione, alla performance e all’installazione, aspetti concettuali che anticipano l’Happening, il movimento Fluxus e la Land art. Nel Manifesto dell’arte Gutai, si ha l’impressione di un ritorno alla stagione astratto-informale, legata alla magnificazione della materia; Yoshihara scrive: <<L’arte Gutai dà vista alla materia…La materia rimane tale e, quando viene sollecitata, rivela le sue proprietà, comincia a raccontare la sua storia, a gridarla anche>>.
Gutai dunque, voleva apportare un profondo mutamento, una svolta epocale nel Giappone post-bellico che puntava a una modernità ancora da immaginare. Determinante per la rinascita della società giapponese fu la democratizzazione del Paese, col conseguente valore inedito attribuito all’individuo; in più vi era la forte tensione fra slancio modernizzatore e profondo attaccamento per la tradizione. Per gli artisti Gutai, ciò si traduce in una sfida ai limiti: osare l’impensabile per trovare nuove forme espressive che restituissero una nuova condizione umana. Ciò può tradursi con un desiderio di libertà incondizionata, che nella pratica si manifesta attraverso gesti artistici del tutto esplosivi.
Secondo il Gutai e secondo molti artisti attivi negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, la pittura così come era esistita fino ad allora non era più adatta a rappresentare la condizione umana. Gli esperimenti del gruppo con le tecniche e i materiali avevano una motivazione etica oltre che artistica: ovvero l’esigenza di una forma espressiva che fosse adatta alla nuova epoca che prevedeva autenticità e autonomia creativa, in opposizione alla psicologia di massa del passato militarista giapponese.
Per fare ciò, gli artisti di Gutai utilizzano materiali umili della vita quotidiana come ad esempio: legno, acqua, plastica, carta di giornale, lamiera, tela, lampadine, fango, sabbia, luce, fumo, fiammiferi ecc. Nella maggior parte dei casi, l’uso di materiali non artistici prese la forma di quelle che oggi chiamiamo performance, installazioni, sound art e arte multimediale. Quando dipingevano utilizzavano tecniche nuove, rifiutando i metodi tradizionali che prevedevano l’uso del pennello e così Shiraga dipingeva coi piedi, Sumi con un abaco e un motore vibrante, Yoshihara con una bicicletta, Shimamoto sparava il colore utilizzando cannoni e bottiglie di vetro, la Kanayama intingeva un’automobile giocattolo nel pigmento.
Ma qual è il senso di questi lavori? Da un lato, il fronte nipponico assimila e amplifica i dettami dadaisti e futuristi riguardanti la conquista spaziale e l’uso del corpo, dall’altro incappa nel limite di subordinare le opere e le performance alla confezione finale di un’opera d’arte da prendere così come è, nell’atto finale, perdendone le modalità esecutive. Senza una spiegazione di ciò che è avvenuto prima dell’esecuzione dell’opera finale, lo spettatore contempla solo l’atto ultimo, perdendo la fase iniziale e intermedia del processo creativo; in questo modo, le opere restano bloccate, congelate in un prodotto finale. Questa è la differenza sostanziale tra lo Happenign (ambiente+azione) di Allan Kaprow, fondatore del suddetto genere e lo “Happened” proposto da Murakami.