“Questo mese, svuotato di possibilità e denso di divieti, ci offre una sola cosa: il tempo”. Ecco come lo trascorre Chiara Casarin
Ode to laziness ovvero il museo immaginario
È ormai più di un mese che siamo a casa. Io, abitando a Treviso, dall’8 marzo, giorno della festa della donna, giorno in cui Treviso è stata tra le prime province ad essere dichiarata zona rossa.
Se qualche veggente me lo avesse predetto, penso non ci avrei creduto. Immaginarci ai domiciliari perché un virus sta sfidando il genere umano è troppo lontano dalle nostre capacità di rappresentarci la realtà. Questo è il punto: quanto sia reale una situazione surreale.
Questo mese, svuotato di possibilità e denso di divieti, ci offre una sola cosa: il tempo. Tempo di cui troppo spesso, in condizioni apparentemente normali, ci sentiamo poveri. Tempo per fare ciò che rinviamo da troppo, tempo da dedicare a tutte quelle belle cose che fanno le belle persone. Ma non siamo tutti belle persone, non a tutti piace fare dolci e stare in tuta da ginnastica per settimane, non a tutti sembra una vacanza stare a casa con i figli piccoli.
Talvolta, nel nostro recente passato, alcuni ottimi genitori non vedevano comunque l’ora che arrivasse il lunedì per poter finalmente andare al lavoro. I più fortunati tra noi, oggi, sono coloro che possono continuare a crescere, a produrre o lavorare da remoto. Tutti gli altri stanno considerando l’ipotesi di assumere un qualche magico farmaco che li svegli quando finisce settembre.
Dunque smettiamola di essere tutti finti-rilassati, allegre e impacciate amanti del fitness domestico e chef improbabili e cerchiamo invece di capire in quale prospettiva possiamo immaginare, vedere, anticipare il futuro. Ora abbiamo il tempo per farlo! Se arriveremo pronti, è solo perché il presente si è rivelato indispensabile per costruirci una nuova e luccicante cassetta degli attrezzi per il ‘dopo’ di ciascuno di noi.
Siamo nati per fare e anche il più geniale dei pigri oggi è messo alla prova. Anni fa, forse era il 2012, ad una delle annuali mostre della Fondazione Bevilacqua La Masa, ho visto esposta una sequenza fotografica in bianco e nero, opera di Mladen Stilinović “Artist at work” del 1977 (immagini) il celebre artista croato mancato nel 2016.
L’immagine mi rimase impressa perché, pur non essendo io un artista, mi sono spesso ritrovata in quella posizione ad elaborare le migliori riflessioni sul mio lavoro che, in realtà, è fatto di sveglie all’alba, viaggi e fatica, anche fisica quando si tratta di allestire.
Oggi, mi pare di vedere gli artisti che conosco esattamente in quel mood: le fiere sono saltate, le mostre rinviate, i vernissage cancellati. Tutte le occasioni per sorridere a un collezionista sono letteralmente svanite. Restano i social con mostre su Instagram, le interviste ma non ci piacciono molto e non basta. Pensare non basta. Forse la maggior parte di loro è all’opera ma, si sa, senza scadenze anche gli artisti fanno fatica. Quindi sono altre le cose da fare e diverse sono le professionalità che in questo periodo possono tirarsi su le maniche senza necessariamente fare la pasta per la pizza.
Occuparsi di cultura -arte, nel mio caso particolare- in questo momento significa viaggiare nel tempo e nello spazio ovunque fuori da questa realtà così didascalica, fare ricerca, studiare, progettare e, soprattutto, rendere non solo possibile ma migliore il futuro che ci aspetta. Ce lo dimostrano i fatti, nulla tornerà come prima per cui è meglio arrivare preparati.
Quindi vi consiglio caldamente di non giocare con i fornelli e, se proprio volete occupare del tempo dedicatevi a fare qualche cosa che abbia a che vedere con la cultura e l’arte.
Credo fermamente che la cultura sarà la nostra salvezza. Cultura che oggi possiamo approfondire o, per alcuni fortunatissimi, iniziare a scoprire come cosa assolutamente nuova ed emozionante. Gli studi scientifici salveranno il nostro corpo, la cultura umanistica salverà la nostra mente (chi lo diceva? Forse qualcuno che finiva con ‘e la preghiera salverà il nostro spirito’ ma evitiamo queste derive). E l’arte, in ogni sua forma, è l’espressione più alta della cultura di ogni nazione.
Abbiamo l’arte, tutta l’arte del mondo, nelle nostre mani. Una disponibilità enciclopedica che aumenta di minuto in minuto. Nei nostri dispositivi possiamo ammirare da vicino opere di ogni tipo: curiosare tra i dettagli del Giudizio Universale di Michelangelo impossibili da vedere dal vivo per i non addetti, visitare città lontane con i loro monumenti e osservare le performance degli anni Settanta, entrare nei caveau delle Gallerie o negli studi degli artisti, sfogliare gli album di disegni antichi conservati nei depositi dei grandi musei.
L’evoluzione tecnologica è la nostra forza non solo per conoscere ma anche per preservare e tramandare il patrimonio al futuro. Una pietra miliare sul panorama di conoscenze in merito a questo principio è appena stata pubblicata da Factum Foundation “L’aura al tempo della materialità digitale”. Una raccolta di saggi firmati dai più autorevoli pensatori contemporanei.
Ma questa non è una novità, potremmo anzi dire che è un secolo ormai che si parla di godimento domestico dell’arte.
Andiamo in ordine cronologico e ne cito solo 3. Nel 1928 Paul Valery scrive “La conquista dell’ubiquità”, saggio straordinario nel quale l’autore fonda tutti i suoi pensieri su una riflessione portante: la disponibilità di immagini è un grande potere sull’uomo e per l’uomo. Valery aveva lo sguardo puntato al futuro e sapeva che ogni aumento delle competenze culturali sarebbe stato un bene per l’umanità: la riproducibilità fotografica e cinematografica iniziava a consentire a chiunque di scoprire le culture e i prodotti culturali lontani. L’arte a portata domestica sarebbe stata una rivoluzione e avrebbe modificato le sue stesse modalità espressive.
Solo otto anni dopo, nel 1936, Walter Benjamin scrive la prima edizione tedesca del celebre “L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica” dove emergevano le stesse tematiche, i tempi erano quelli in cui le scoperte tecnologiche iniziavano a diffondersi rapidamente, ma con un accenno di preoccupazione, quasi di disappunto.
L’autore concepiva unicamente la relazione diretta tra opera e autore. Ogni medium avrebbe vanificato la potenzialità spirituale dell’opera, la sua aura che, ingenuamente credeva coincidesse con la sua autenticità. Benjamin ancora non sapeva cosa sarebbe successo in futuro. Mentre Valery ne aveva colto le potenzialità, Benjamin temeva di scoprirle però ammetteva che esistessero, eccome.
Un decennio ancora e André Malraux, nel 1947, da alle stampe “Il Museo Immaginario” saggio entusiasmante nel quale il raggiungimento dell’obiettivo si concretizza nell’assenza dell’opera d’arte, nella mancanza di materia, di presenza fisica e di vicinanza con l’osservatore. Il Museo immaginario è dentro di noi ed è composto di tutte le opere d’arte che amiamo e che possiamo collezionare in forma di fotografia e che possiamo condividere con chiunque in tempo reale. Hic et nunc di Benjamin diventa per Malraux, come per Valery, un momento trascurabile.
Però il contemporaneo ci da un altro fianco: l’opera nasce immateriale, inesistente, invisibile solo a chi non vuole vederla eppure presente. Un esempio tra i più riusciti mi è arrivato qualche giorno fa da Luca Rossi Lab via mail con oggetto “Un’opera d’arte che è già a casa tua” (immagine) di cui voglio citare il passaggio fondamentale del testo in mail : “Quest’opera è stata presentata per la prima volta nel 2011 a Varsavia in una galleria chiusa, appena prima dell’allestimento ufficiale.
Mi piace come il collezionista, che ha acquistato l’opera nel 2011, debba oggi tenere una parete della sua casa completamente vuota. Debba gestire da 9 anni questo vuoto. Infatti l’opera appare durante il giorno in alcuni momenti dell’anno quando c’è il sole, e poi di notte sparisce, puntualmente.
Probabilmente quest’opera si trova già in questo momento nelle vostre case. Pensare al collezionismo non come accumulo ma come sottrazione: una parete vuota, in attesa dell’opera. Ma anche una forma di ecologia rispetto un inquinamento continuo di opere, contenuti e informazioni di cui siamo tutti produttori e consumatori. Una gestione del vuoto molto simile all’esercizio esistenziale a cui ci costringe la quarantena.“
Luca Rossi è un artista talentuoso che ci induce a riflettere molto e che con l’ironia svaligia la nostra quotidianità sovraccarica di luoghi comuni e di pensieri non fatti. Per fare la non-opera ha lavorato molto.
Ecco, se vogliamo possiamo stare distesi, dire che stiamo lavorando e ammirare la nostra opera sottratta oppure ci è consentito accendere uno dei nostri dispositivi e goderci l’arte. Possiamo anche crearci il nostro museo immaginario come suggeriva Malraux e che Bill Gates nel 1996 ha dettagliato annunciando “ Se vorremo vedere riproduzioni delle opere d’arte esposte in un museo o in una galleria, potremo camminare in una rappresentazione virtuale, navigando per le sale […] niente folla, niente fretta. Nel nostro museo immaginario potremo spostare le pareti e aggiungere sale. Lo sviluppo di nuove tecnologie capaci di ingannare i sensi dell’utente è l’obiettivo da raggiungere”.
Dal veleno il farmaco, dal virus il vaccino, dalla quarantena lo studio. Da casa tutta l’arte possibile, di ogni tempo e di ogni dove. Ma io ho un grande desiderio materiale: vorrei che il collezionista illuminato oggi non si prodigasse per sottrazione, ma nell’acquisto compulsivo di opere d’arte.
Oggi i collezionisti possono scegliere con calma, tra una telefonata e un paio di mail possono fare una cosa molto importante: far lavorare chi è costretto a stare fermo, sostenere un artista e una galleria che gli saranno per sempre riconoscenti, far correre il corriere e aprire il pacchetto, passare da un museo immaginario a uno reale e dedicare una parete di casa ad un’opera che ogni giorno gli ricorderà l’immenso valore dell’arte anche e soprattutto in tempo di covid-19.
Chiara Casarin