Il 17 aprile 1970 moriva a New York Domenico Gnoli, fra i più raffinati pittori italiani degli anni Sessanta. Ma il cinquantenario è stato del tutti ignorato dalle istituzioni artistiche italiane
Circa tre mesi fa titolavamo pressoché così un articolo che rimarcava il silenzio quasi assoluto sotto il quale stava passando il centenario della scomparsa del grande Amedeo Modigliani. Lamentando la latitanza di iniziative ufficiali prese per celebrare l’evento nella maniera avrebbe meritato: nulla dal Ministero per i Beni Culturali, nulla dai grandi musei italiani focalizzati su arte moderna e contemporanea – Galleria Nazionale, Mart, Castello di Rivoli, Museo del Novecento, per citarne qualcuno -, nulla dai centri d’arte normalmente sedi di grandi mostre, da Palazzo Reale a Milano alle Scuderie del Quirinale a Roma. Sola eccezione a confermare la regola, quella Livorno che a Modì dette i natali, attiva nell’omaggio con un’ottima mostra ed un ricco e pregnante convegno internazionale.
Ora ci troviamo a dover usare il medesimo approccio – e davvero ci piacerebbe poter credere che la cosa non abbia a ripetersi in futuro – per un’altra ricorrenza parimenti ignorata dalle istituzioni artistiche: il cinquantesimo anniversario della morte di Domenico Gnoli, scomparso appunto a New York il 17 aprile 1970. Due artisti certo molto diversi quanto a popolarità e valori assoluti, almeno quelli stabiliti dalla critica e dal mercato: ma entrambi decisamente rappresentativi dell’eccellenza della creatività italiana, affermata per tutti e due su scenari internazionali, quindi assolutamente selettivi.
Ci siamo però ormai stancati di porre le solite retoriche domande: perché? Perché l’Italia rinuncia a celebrare e valorizzare artisti che rappresentano punte di diamante della propria altrimenti martoriata scena creativa, capaci di darle lustro in un panorama contemporaneo altamente competitivo e raramente frequentato da nostri rappresentanti? Perché – come per Modigliani – non pensare a un’importante mostra, che Gnoli attende da diversi decenni in istituzioni statali, certo da prima che la sua stella brillasse anche per quotazioni ormai sui livelli dei più grandi del Novecento?
E invece niente, il silenzio, neanche una breve nota o dichiarazione, peraltro le sole attività possibili in questa amara contingenza pandemica. Il dubbio, sempre più forte, è che il Ministro che a queste questioni dovrebbe soprintendere, neanche conosca chi è Domenico Gnoli, e che non lo conoscano i grand commis che lo attorniano al dicastero.
Come per Modiglioni fu a Livorno, a parzialissimamente colmare questo vulnus provvederà un centro d’arte stavolta privato, la Fondazione Prada, che a Milano allestirà una prevedibilmente importante mostra di Gnoli, affidata alle sicure mani curatoriali di Germano Celant, inizialmente prevista per fine settembre 2020 ma ora causa Coronavirus rinviata a ottobre 2021. Ma resta l’amara constatazione del silenzio istituzionale, che lasciamo a voi commentare ulteriormente.
Modigliani e Gnoli: personaggi evidentemente distantissimi per il dato cronologico, ambientale, critico, in senso lato. Eppure – chi scrive sta lavorando da tempo ad approfondimenti su entrambi – inopinatamente accomunati da diversi aspetti, oltre alla citata (s)fortuna memorialistica. L’innata eleganza e nobiltà d’animo e di stile: per Modigliani – almeno agli inizi – espressione di origini alto-borghesi e di un’educazione ferrea, per Gnoli anche di schiatta – era conte – e di frequentazioni.
La comune opzione nel rifiutare l’inquadramento in qualsiasi movimento o gruppo, che poi porterà con sé difficoltà nel riconoscimento della critica e del mercato. L’esser andati ad affermarsi lontano dal suolo patrio – Modì a Parigi, Gnoli fra Parigi, Londra e New York -, conservando però intatto l’amore per l’Italia e le influenze della migliore tradizione artistica italiana nelle proprie opere. E poi – ma i punti di contato sarebbero molti – una vita maledettamente breve: 36 anni per il livornese, 37 per Gnoli.
“Era una straordinaria mescolanza di energia e di sogno…”. Queste parole dell’amico scrittore Frederic Grunfeld, nella loro evidenza icastica, colgono il significato profondo della figura di Domenico Gnoli. C’è l’irrequietezza, l’esuberanza, la curiosità, la fiera difesa della propria unicità. Ma c’è anche la determinazione, la consapevolezza, la ricerca poetica del senso ultimo delle cose.
Era nato a Roma il 3 maggio 1933 da Umberto Gnoli, storico dell’Arte, e dalla contessa Annie de Garrou, pittrice e ceramista. L’ambiente familiare gli fornì, fin dalla giovinezza, tutti gli stimoli per una solida preparazione culturale classica. Indirizzando le sue preferenze all’ambiente artistico: “Sono nato sapendo di diventare pittore”, dichiara in un’intervista del 1965, “perchè mio padre faceva capire che sarebbe stata l’unica cosa accettabile”.
Intorno ai vent’anni Gnoli inizia ad interessarsi del mondo del teatro. Nell’autunno 1953, recatosi per la prima volta a Parigi, incontra il grande attore e regista Jean Louis Barrault, il quale intuisce subito il suo talento. E nel novembre del 1954 lo invia a Londra con una entusiastica lettera di presentazione per Sir Lawrence Olivier e Sir John Gielgud. L’Old Vic Theatre, il tempio della drammaturgia scespiriana, gli affida scene e costumi per “As you like it”. Nel marzo 1955 l’opera va in scena, con un grande successo; tutti i commentatori riservano i migliori elogi allo scenografo-costumista, vera sorpresa per il raffinato pubblico.
Gnoli però torna al disegno e alla pittura, con tele piuttosto elaborate trattate con colla e sabbia, e dipinte a tempera. Una figurazione “magica” che cerca di resistere all’informale dominante in quegli anni, con esiti che risentono in qualche modo della lezione di Massimo Campigli e Franco Gentilini. Inizia a concentrarsi sul lavoro di illustratore, stringendo rapporti con le più importanti riviste: nel 1960 espone all’Annual Exhibition della Society of Illustrators, prestigiosa istituzione che nel 1966 lo premierà con la Medaglia d’oro come miglior illustratore dell’anno negli USA.
Il 1964 è l’anno dell’esplosione internazionale della Pop Art, che trionfa alla Biennale di Venezia. Molti, con grande superficialità, interpretano in questa chiave anche la nuova stagione della pittura di Gnoli. “Poi è venuta la Pop Art. Qui l’oggetto volgarizzato era privo di magia. Io ho preso un’altra strada…”, dichiarerà anni dopo all’amico Claude Spaak, rigettando la lettura. E nel 1968 preciserà: “Io tendo a collocare il mio lavoro in quella tradizione “non eloquente” nata in Italia nel quattrocento e arrivata fino a noi passando, da ultimo, per la scuola metafisica”. A Parigi André Schoeller gli propone una mostra per la fine del ‘64: vi sono esposte 12 tele, acrilici mischiati a sabbia, colla e cemento. I primi dipinti con particolari ingigantiti, di cui la stampa parla con entusiasmo.
Nel 1968 due musei allestiscono mostre personali di Gnoli, segno della definitiva consacrazione internazionale. In marzo il Palais des Beaux Arts di Bruxelles, in maggio il Kestner Gesellschaft di Hannover. In giugno espone in Germania alla quarta edizione di “Documenta”, a Kassel. Ed il grande gallerista newyorkese Sidney Janis, visti i suoi lavori, gli propone una personale che si inaugura a dicembre 1969. L’accoglienza è trionfante, con unanimi riconoscimenti anche dalla stampa.
Nel gennaio del 1970, affaticato per l’intenso lavoro, e per la malattia incipiente, parte per una crociera alle Piccole Antille. A Granada è colpito da forte febbre, rientra molto malato a New York, dove muore il 17 aprile.
Il destino, quel destino che gli aveva concesso il bene a lui più prezioso, la libertà, gli aveva riservato un’uscita di scena amara ma allo stesso tempo grandiosa, quasi epica. Morire a 37 anni, come Van Gogh, come Parmigianino, come Raffaello. Nella grandezza.
Massimo Mattioli