La condizione in cui si riversa la presa pittorica di un’opera d’arte può essere la medesima di un tentativo critico. Da dove partire, dunque, quando all’inizio c’è la tela bianca, o meglio, un Whiteout? L’espressione, che dà il titolo alla prima esposizione di Marta Spagnoli (Verona, 1994) negli spazi della Galleria Continua di San Gimignano (22 febbraio – 10 maggio 2020), è indicativa di una contingenza metereologica tipica del circolo polare artico.
È il nome dello “spaesamento”, delle nuvole che coprono il sole e generano una luce diffusa dove non sono più così chiare, all’orizzonte, le distanze tra un punto e l’altro nella mappa omogenea di un paesaggio fatto di neve e di nebbia. La situazione è spettrale, si dirà, impervia e di certo rischiosa. Il “bianco”, tuttavia, è l’accenno dal quale dipende un modo di agire; le forme e le tracce emerse dalla lavorazione di colore e acqua convergono nell’unità della tela e generano armonie e angoli sfaccettati di figure prossime al mito. L’Idra e gli amori fluttuanti, i satiri e i viandanti, i felini e le serpi sono riferimenti espliciti nel lavoro dell’artista veronese, che quasi spuntano involontariamente dalla nostra memoria. Elementi coesi in un tessuto pittorico ricco di salti e lacune, nel quale affondano e dal quale appaiono come vestigia di pura “invenzione”, quando per essa s’intende il rinvenimento di un dato sommerso che torna in superficie. L’immagine resta a un tempo indefinita e identificabile, soggetta, più che altro, al limite della figura, nel fluire incontinente della prassi pittorica.
L’approccio mitopoietico, la rielaborazione e i sedimenti di un immaginario che investe la sfera simbolica della nostra storia, incontrano nell’arte di Marta Spagnoli il gene fondamentale del dipingere: l’esposizione entro i confini del supporto di un “movimento” senza punto fermo. Dalle tele di grande dimensione (Selvaggi, 2019; Ko Yao Noi, 2018) alle bianche pause tra una forma e l’altra dei Pronubi (2019) e Le Nuvole (2019), si mostra l’intervallo lirico e deciso di “segni naturali”, ora tradotti in equilibri di colore e avvisaglie figurative. Ritorna, in qualche modo, sebbene appartenga a un fermento storico distante e differente dal nostro, la pretesa di Edouard Manet. La sua consapevolezza, che venne appuntata e trascritta da Stéphane Mallarmé in una nota del settembre 1876, a proposito del dipingere e del suo metodo, in un tempo in cui il pittore francese doveva sopportare le comuni ingiurie che lo accusavano di non portare a compimento molte delle sue opere: “Ogni volta che si comincia un quadro», diceva Manet, «vi si immerge la testa per la prima volta e si ha l’impressione di un uomo che si renda conto che il mezzo più sicuro per imparare a nuotare senza correre rischi, per quanto pericoloso possa sembrare, è gettarsi in acqua».
È probabile, per quanto ipotetico, che anche Manet vivesse un suo Whiteout. La pressione di un bisogno originario che desidera esprimersi con la foga o la pacatezza di un gesto pittorico. Il gesto nel tempo, il gesto come dilemma di una condizione in cui «si sente di dover iniziare qualcosa di urgente». Così mi scrive Marta Spagnoli in un dialogo a distanza, poiché «c’è qualcosa che resta immutato e misterioso nella pratica pittorica. L’approccio alla tela bianca è anche per me qualcosa in cui sprofondare e dal quale si deve riemergere, avendone in qualche modo riorganizzato il contenuto, impostato un dialogo che inizialmente nasce per una necessità propria, indagatrice, e che successivamente viene ampliato a tutti coloro che ne fruiranno».
Dipingere non può che essere la modalità ricettiva di un lavoro a tempo indeterminato, anche nel manifestarsi di una situazione inconsueta, magari negativa, con un risvolto che, malgrado ostacoli la nettezza di una visione, ne consente la percorrenza per via di una traccia ritrovata: il sentiero in un paesaggio nebuloso con luce diffusa, mappato, in un certo senso, con l’ausilio di un “bagaglio” visivo costituito da disegni e appunti, scritti e discorsi più che indiziari. Nel lavoro di Marta Spagnoli non c’è spazio per la separazione, probabilmente infondata, tra ciò che è astratto e ciò che, in maniera riconoscibile, ci risulta concreto. Dal lavoro con la materia, continua l’artista, nascono «forme che in qualche modo rimandano a qualcosa o a qualcuno: da lì si sviluppa la narrazione. Ecco la partenza, è la pittura che poi suggerisce quale tra i miei disegni e i miei interessi iconografici possa da essa affiorare e prendere anima tra i movimenti liquidi, emergendo da essi o dal candore della tela ancora intonsa».
Questo contenuto è stato realizzato da Luca Maffeo per Forme Uniche.