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Celant? Conta meno dell’orso M49. Amato, odiato, ignorato

Germano Celant Germano Celant
Germano Celant
Germano Celant

L’oblio sotto il quale la morte del grandissimo critico Germano Celant è passato su quotidiani e tv diventa lo specchio della scarsa considerazione dell’arte contemporanea oggi in Italia

Ci sono le vicissitudini di Paulo Dybala, il campione della Juventus che pare non riesca a guarire, infettato dal COVID-19 e ancora positivo da 50 giorni. E ci sono le avventure trentine di M49, l’anarchico orso la cui fuga, che durava dal luglio 2019, ha appassionato mezza Italia idealista e sognatrice – chi scrive fa parte di quella mezza -, prima di concludersi con la cattura. Ci sono le sfide di Donatella Versace per capire “i desideri della gente”, ci sono le ultime mosse strategiche di Netflix, c’è la presentazione della sorella di Kim, pronta a ereditarne la poltrona in Nord Corea.

E ovviamente ci sono profluvi di commenti, analisi, retroscena, inchieste sul Coronavirus e sugli sviluppi della pandemia e della relativa “reclusione”, declinati in ogni salsa. Ma chi cercasse traccia della morte di Germano Celant, il più importante critico d’arte degli ultimi decenni in Italia, e fra i più importanti al mondo, non ne troverebbe sulle prime pagine dei quotidiani italiani di oggi, 30 aprile 2020. Con due sole eccezioni, fra quelli a diffusione nazionale: Il Giornale e Il Manifesto.

La cosa non è sfuggita a noi, e anche a diversi osservatori, che sui social network, lo strumento che in questa contingenza “sanitaria” si confermano – qualora ce ne fosse bisogno – lo strumento più sincrono alla comunicazione del terzo millennio, hanno dato il via a una ridda di riflessioni, non di rado – fra gli addetti del mondo dell’arte – amare e venatamente nichiliste.

Se la morte del più grande, potente, prestigioso, internazionalmente riconosciuto rappresentante di questa categoria tanto spesso autoreferenziale essa stessa, passa sotto questo assordante silenzio, significa veramente che dell’arte – contemporanea, in questo contesto – non importa proprio niente a nessuno, è la summa di tanti di questi sfoghi. Inutile dire che anche la tv – se si eccettua un brevissimo cenno del TG3 – ha partecipato ad un oblio tanto generalizzato da apparire come una verità inconfutabile.

Qualcuno prova ad aggrapparsi all’ignoranza del pubblico e degli addetti alla comunicazione: un’ignoranza certamente diffusa anche fra i nostri politici, testimoniata dal silenzio che ha accompagnato alla Camera dei Deputati l’accorato ricordo di Celant fatto in aula da Gennaro Migliore, e anche dalle due-righe-due di gelido omaggio tributategli dal ministro Franceschini.

Ma questo qualcuno non si rende conto che questa presunta “ignoranza” non è che figlia della marginalità alla quale si è condannata oggi l’arte contemporanea. Della quale possiamo cercare mille cause, ma della quale dobbiamo renderci conto, anche con questa nuova prova.

Qual è il ruolo di Celant in questo quadro? Centrale, come non potrebbe non essere, viste le premesse fatte. Personaggio coltissimo, visionario, intraprendente, grande professionista, capacissimo anche di crearsi le condizioni per poter lavorare al meglio come lui sapeva fare.

Se una pecca il sottoscritto potrebbe rilevare al suo straordinario operato, è forse un certo “horror vacui” che a volte rendeva la sue mostre troppo “piene”, troppo dense: ma è una pecca che ci piacerebbe riscontrare spesso, davanti a mostre spesso al contrario esili e superficiali. Ma non è questa la sede per rinnovare le lodi di uno studioso che comunque resterà nella storia dell’arte degli ultimi 50 anni.

Non sarebbe tuttavia giusto nascondere che Germano Celant era un personaggio decisamente divisivo, e ache questo emerge nel compulsare i molti ricordi apparsi da ieri. Pieni di amore, stima, in qualche caso fino alla venerazione. Ma in molti casi traspare una certa mancanza di “simpatia”, nel senso etimologico del termine: non era facile a concedersi al rapporto umano.

E probabilmente il suo “stile”, un po’ snob, che peraltro è servito a modello per tantissimi giovani critici e curatori oggi sulla cresta dell’onda, ha contribuito a costruire quel “recinto” nel quale negli ultimi decenni si è autoconfinata l’arte contemporanea italiana. Una questione riservata – per scelta – ad un ristretto gruppo di “eletti”, impenetrabile da nuove energie, e quindi tendenzialmente asfittico.

Si leggono, soprattutto da parte degli artisti a cui il grande critico e curatore non ha mai concesso una mostra o uno scritto, epitaffi commossi intonati alla sua scomparsa. Accompagnati dalla costernazione per il fatto che i media generalisti non si uniscano quasi per nulla al loro dolore nel celebrare la memoria del più importante curatore italiano del secolo scorso”, scrive l’artista Nicola Verlato, molto attento a questi fenomeni.

Ma in quale sogno sono vissuti finora costoro? Non si accorgono che la marginalità culturale dell’arte contemporanea. Che finalmente, forse, anch’essi sono costretti a constatare, deriva in buona parte anche dal lavorio che il grande critico e i suo adepti hanno compiuto negli anni imponendo, in regime di semi monopolio, un’arte totalmente autoreferenziale volta esattamente a conseguire questo risultato? Vivere in una bolla puo’ essere piacevole per molti ma alla lunga puo’ generare effetti di strabismo valutativo di notevole portata“.

Massimo Mattioli

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