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L’incredibile storia di Lucia Joyce. Figlia di un genio. Innamorata di un genio. Allieva di un genio

Lucia Joyce, che era un genio, ragazza prodigio figlia di un genio, allieva di un genio, innamorata di un genio e paziente di un genio, finì sola e perduta in mezzo a cotanta genialità

Morì sola e dimenticata da tutti in un posto con dei lunghissimi corridoi bui e tetri che finivano con una piccola luce giù in fondo, che forse era la porta sul mondo o forse no, nella campagna piovigginosa di Northampton, Inghilterra.

Lucia era una bellissima ragazza e aveva due occhi grandi che riuscivano a parlarti. Ogni tanto si perdevano nel vuoto, come se il tempo che viveva fosse diverso dal nostro. Era nata a Trieste, nel 1907. Suo padre la adorava. Si chiamava James Aloysius, di professione insegnante, costretto all’esilio dall’Irlanda per risse da ubriaco, e diceva che non aveva «mai conosciuto una persona più intelligente di lei».

Era brava a scrivere e a disegnare, ma soprattutto era una bimba precoce che imparava le cose prima e meglio degli altri suoi coetanei. Sin da piccola aveva mostrato una predisposizione particolare per la danza. Era la sua vera passione. Così aveva studiato danza inizialmente al Dalcroze Institute di Parigi, dove nel frattempo si era trasferita la famiglia, e poi vicino a Salisburgo, da uno dei coreografi più in vista dell’epoca, Raymond Duncan, un genio assoluto nel suo campo, un tipo abbastanza stravagante dalle idee molto moderne.

Tutti i suoi insegnanti concordano che la ragazza è destinata a un grande futuro sul palcoscenico. E verso la fine degli Anni Venti, ancora giovanissima, fu protagonista al festival internazionale di danza, nella sala del Bal Bullier, a Parigi, gremita di gente. In mezzo a quella folla c’era papà James, e il suo grande amore, Samuel, un giovanotto che era l’assistente di suo padre. Lucia aveva ideato il Ballo della Sirena e indossato uno splendido costume realizzato tutto da sola, con le sue mani.

C’è una foto che la ritrae durante l’esibizione. Lei è bellissima, con il suo costume rivestito di scaglie scintillanti, il corpo flessuoso che disegna una posa irregolare, con il busto che si muove nella direzione opposta da quella a cui lo spingerebbero le gambe, faticosamente piegate come se facessero resistenza alla propria volontà.

La cosa straordinaria di questa immagine è che sembra impossibile che sia stata scattata nel 1928, cioé quasi un secolo fa, perché tutto, dal costume aperto sulle cosce, alla postura della danzatrice e a lei stessa, pare appartenere già alla nostra modernità. C’è in questa foto qualcosa di bello e tragico insieme. E il pubblico rimase incantato dalla sua prova, tanto che quando fu proclamata vincitrice una ballerina francese assegnando a lei solo il secondo posto, reagì con fischi, ululati e proteste che durarono per tutto il tempo della premiazione.  Ma nonostante questo il suo successo sembrava ormai decretato. Nei mesi successivi andò in scena in Francia, Austria e Germania e raccolse ovunque consensi entusiastici.

Poi all’improvviso la sua vita cambiò. Nel 1929 decise di lasciare la danza. Diceva di non sentirsi «fisicamente abbastanza forte per essere una ballerina di qualsiasi tipo». Rifiutò l’offerta di una importante compagnia e annunciò che avrebbe fatto l’insegnante, come suo padre. Può essere che il papà abbia avuto un ruolo importante nell’influenzare questa decisione, perché si era convinto che il durissimo allenamento che richiedeva il ballo le causasse uno stress eccessivo e che questo fosse all’origine del rapporti conflittuale che aveva con la madre Nora.

In effetti Lucia aveva già dato qualche segno di squilibrio e la sua salute mentale iniziava a destare preoccupazione: si erano ripetuti episodi di catatonia, piromania, inspiegabili sparizioni che duravano per giorni interi. Alla base di queste fughe, c’era sicuramente la difficile convivenza con la mamma, che era stata sin dall’inizio contraria allo studio del ballo e che non sopportava la sensualità di sua figlia. Se suo padre pareva averla capita fin nel profondo dell’anima («Parliamo la stessa lingua, diceva), sua madre sembrava averla rifiutata.

Le cose peggiorarono quando la sua storia d’amore con Samuel giunse alla svolta decisiva, al suo punto di non ritorno. Lei era innamoratissima di Samuel e per un breve periodo i due erano stati amanti appassionati. Ma lui aveva già un’altra donna e il giorno che lei gli chiese di decidere con chi stare, temette di perdere la stima del padre di cui era assistente, e anche il posto di lavoro. Messo alle strette, le disse di no. Questa delusione fu il detonatore che probabilmente fece saltare il precario equilibrio su cui camminava la vita di Lucia.

Nel 1932, proprio il giorno del cinquantesimo compleanno di James Aloysius, la sua esistenza esplose in frantumi. Venne ricoverata per la prima volta in sanatorio, dopo una furiosa lite con la madre, durante la quale le aveva scagliato addosso una sedia molto pesante. Suo padre ricordò quella scena come se lei avesse avuto «un fuoco nel cervello». Fu suo fratello Giorgio, che non la poteva vedere, a decidere il ricovero.

A trent’anni aveva già fatto il giro dei manicomi europei. Nel 1935, internata in un sanatorio alle porte di Parigi, rifiutò il cibo, appiccò il fuoco nella sua stanza, scrisse lettere ai morti e tentò il suicidio. Le diagnosi parlavano di schizofrenia con elementi pitiatici, nevrosi, ciclotimia. Il padre aveva speso una fortuna sperando di curarla. Era l’unico che continuava ad andarla a trovare. La mamma e il fratello era come se si fossero dimenticati di lei.

James decise di rivolgersi al più grande di tutti, per le malattie della psiche, a Carl Gustav Jung. Lui rilevò alcuni elementi schizoidi in alcune poesie scritte da Lucia, ma il padre rifiutò questo giudizio: «Quella è arte. E’ l’intelligenza che la fa affiorare». Ma alla fine il grande psichiatra si arrese e ammise la sua sconfitta. Quando il padre andò a prendere la figlia in Svizzera gli disse: «Lucia e io nuotiamo nella stessa acqua». E Jung gli rispose: «Sì, ma lei sta annegando». Deluso da questa sconfitta professionale, bruciò tutto quello che riguardava Lucia, il suo diario, le sue poesie, le memorie su suo padre scritte in italiano e qualsiasi referto. Non è rimasto più niente di Lucia.

Poco dopo James morì. Era il 1941. Nessuno la avvisò. E dall’oggi al domani, improvvisamente, nessuno veniva più a trovarla. Mai la madre. Nemmeno una volta il fratello che l’aveva fatta ricoverare. Venne trasferita a Northampton e lì resto sino alla fine, abbandonata a se stessa. Morì per un ictus, nel 1982, a 75 anni. La ballerina destinata a un futuro grandioso era morta senza un applauso, senza nessuno che la guardasse.

La famiglia Joyce

Il genio acuisce la nostra sensibilità. E quindi anche il nostro dolore. Purtroppo non è sempre un buon compagno di viaggio. Dove l’hanno sepolta c’è qualche fiore appassito. E sulla lapide c’è solo scritto questo: «Lucia Anna Joyce. Trieste 1907. Northampton 1982». Perché lei era la figlia di James Aloysius Joyce.

Il suo grande, sofferto amore, Samuel Beckett, aveva conservato quella foto scattata al Bal Bullier di Parigi, quando il mondo sembrava suo e la gente la acclamava. Gliela trovarono nel portafoglio il giorno che morì. Era un po’ stropicciata. Ma lei, almeno, aveva fermato il tempo.

 

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