Fotografie contemplative in grande formato confondono la nostra percezione dei conflitti, presenti e passati, per interrogarci sulle contraddizioni intrinseche alla società umana. Al Carnegie Museum of Art, una retrospettiva (visitabile online) e un libro celebrano la (quasi) trentennale carriera di An-My Lê.
Da quasi trent’anni An-My Lê (Saigon, 1960) indaga il tema del conflitto, inteso sia come guerra nella classica accezione del termine, sia come quotidiano scontro sociale e culturale. La grandezza della fotografa americana, di origine vietnamita, risiede però nella sua capacità di incoraggiare l’osservatore ad interrogarsi sulla propria percezione del conflitto, per valutare la propria relazione con esso. L’artista non realizza immagini di guerra fini a se stesse, ma le impregna di verità più profonde: verità che si rivelano agli occhi di chi è in grado di liberarsi da preconcetti, frutto di un immaginario comune radicato. Questo vale per tutto, sia che si tratti dell’allenamento dei Marines nel deserto della California, in procinto di schierarsi in Iraq, sia che si tratti dei fanatici che rievocano la guerra del Vietnam nei boschi della Virginia.
Il Carnegie Museum of Art di Pittsburgh, in Pennsylvania, ospita la mostra On Contested Terrain: 110 fotografie tratte da 7 serie ripercorrono la carriera di An-My Lê, esplorando il suo originale approccio al tema della guerra. A causa dell’emergenza sanitaria, la retrospettiva è per ora visitabile solo attraverso un virtual tour, così come il catalogo è acquistabile online. Le raccolte presentate in mostra toccano conflitti specifici come la guerra civile americana, il Vietnam, l’Iraq, fino ai più recenti scontri sociali dell’America contemporanea, ma sono tutti legati da sottotemi comuni e da un medesimo approccio fotografico. In particolare, nella fotografia di An-My Lê, il paesaggio assume il ruolo di scenografia su cui si muovono le vicende umane: se gli uomini cambiano, lo scenario rimane pressoché immutato, quale testimone passivo di ciò che accade, eppure altrettanto importante.
All’interno dell’esposizione, Silent General occupa un ruolo centrale. Il progetto, tra i più recenti e tutt’ora in corso, scava nei meandri della storia americana per rivelarne i lati più oscuri e metterli in relazione con il presente. Muovendosi tra la fotografia di paesaggio e il ritratto, la fotografa non documenta eventi specifici ma compone narrazioni intrecciate che interrogano gli Stati Uniti sulle proprie contraddizioni più lampanti. Il paesaggio, dal canto suo, riflette nelle proprie forme e componenti le diverse sfaccettature della cultura americana.
Altre due serie riguardano invece il Vietnam, terra natia da cui An-My Lê è fuggita a causa della guerra negli anni ’70. Sono Viêt Nam (1994 – 1998) e Small Wars (1999 – 2002). La prima racconta l’esperienza del ritorno a casa dopo vent’anni di assenza, un tuffo nella memoria di un’infanzia felice messa a confronto con il Vietnam di oggi, un paese fragile sorretto da un’economia precaria. Il secondo, invece, segue un gruppo di giovani americani che rievocano la guerra del Vietnam nei boschi della Virginia e della Carolina del Nord.
In ogni scatto dell’artista, incertezza e ambiguità permettono allo spettatore di fare un passo indietro rispetto a ciò che vedono per maturare una riflessione autonoma. Le fotografie di Lê, all’apparenza grandiose e dal forte appeal estetico, contrastano con il contenuto e le riflessioni che questo è in grado di generare. Quasi sempre si limitano a porre delle domande, lasciando che sia l’osservatore a darsi delle risposte, o a non darsene affatto.
*An-My Lê, US Customs and Border Protection Officer, Presidio-Ojinaga International Bridge, Presidio, Texas, from the series Silent General, 2019. Courtesy the artist and Marian Goodman Gallery. © An-My Lê