Oggi 3 giugno cade il cinquantenario della morte del più grande storico dell’arte italiano di sempre, Roberto Longhi. Ma Franceschini, il Mibact e tutte le istituzioni non se ne accorgono
Nelle riflessioni scritte o lette in questi lunghi mesi di “clausura”, ci è capitato più di una volta di prendere coscienza della debolissima presenza delle questioni artistiche – specie contemporanee – nell’immaginario collettivo. Nella vita degli italiani, nel mondo della comunicazione, nella costruzione di molti aspetti della società, anche nel dibattito culturale. E di conseguenza di ragionare sulle cause di questo. E anche sulla correttezza delle azioni di chi questo mondo artistico lo anima, su nostre possibili responsabilità.
Ora si aggiunge un fatto che ci aiuta a definire meglio questi pensieri. Perché ci tocca renderci conto, ancora una volta, che anche a chi riesca ad eccellere nel proprio specifico – grandissimi artisti, influenti e prestigiosi storici o critici d’arte – l’Italia non riserva miglior sorte. Anzi, un rumorosissimo oblio. L’avevamo notato, in questo anno 2020, parlando del centenario della morte di Amedeo Modigliani, passato sotto il totale silenzio anche di istituzioni espressamente votate all’arte contemporanea, oltre che dal nostro Ministero per i Beni Culturali. Un silenzio rotto soltanto da una pur piccola ma meritoria mostra a lui dedicata dalla sua città, Livorno.
Simile tenore di rilievi ci era toccato muovere non tanti giorni or sono, il 17 aprile, quando cadevano i 50 anni dalla scomparsa di un altro grande artista italiano capace di imporsi all’attenzione di tutto il mondo, Domenico Gnoli, parimenti ignorato anche nel più stringato degli omaggi, con la sola eccezione – privata – della Fondazione Prada, con una mostra pensata dal compianto Germano Celant e ora riprogrammata al 2021 causa Coronavirus.
Pare ormai essersi instaurata la granitica certezza che tutto quanto attenga all’arte contemporanea non meriti attenzione né valorizzazione, anche quando l’importanza – in questo caso di artisti – sia ormai stata “certificata” dal vaglio storico, e anche dal generalizzato apprezzamento internazionale. Quali le cause? Ne abbiamo via via suggerite diverse, fra queste l’accentuata autoreferenzialità del sistema nostrano del contemporaneo, resistente ad aprirsi al dialogo ed al contributo di ampi scorci della società.
I più maliziosi indugiano sul relativamente modesto “appeal” mediatico dell’arte contemporanea, che farebbe dirottare l’attenzione dei decisori – politici, ma non solo – e anche gli investimenti su altri ambiti, dal cinema alla musica. Dotati senz’altro di una audience più allargata e quindi di potenzialità comunicative ed eventualmente propagandistiche più efficaci. Altri – maliziosi anche questi? – restringono la questione a ragioni mercantili: un artista con un mercato ormai consolidato, con quotazioni e sei, sette o anche otto cifre (Modigliani) non concede spazio a operazioni speculative. Per cui non risulta interessante che compaia nei nostri sgangherati musei o centri d’arte dedicati al contemporaneo.
Il fatto nuovo, a cui accennavamo in apertura, sposta un po’ l’orizzonte fin qui delineato, ma non ne cambia i dati di fondo. Già, visto che ad essere “beneficiato” dell’oblio istituzionale (anzi, generalizzato) è uno storico dell’arte. Probabilmente se non certamente il più grande storico dell’arte italiano di sempre, di cui oggi 3 giugno cade esattamente il cinquantenario della morte. Parliamo – l’abbiamo già fatto oggi stesso qui – di Roberto Longhi, nato ad Alba il 28 dicembre 1890 e scomparso a Firenze il 3 giugno 1970. Ovvero – ci si perdonerà la sintesi, ma il personaggio è un tale gigante che ci piace pensare non sia necessario dettagliarlo in questa sede – del vero e proprio “inventore” di Caravaggio, che prima dei suoi studi era relegato a modesto realista di genere.
Di colui che presentò in chiave moderna l’opera e la figura di Piero della Francesca. Pubblicando nel 1927 una celebre monografia tradotta immediatamente in lingua francese (1927) e subito dopo in inglese (1931). Del fondatore nel 1950 della più importante rivista italiana del novecento, “Paragone”, che lui stesso dirigerà fino alla morte. Arricchendola di importanti editoriali di politica culturale e saggi su vari argomenti storico artistici. Nel mezzo curando fondamentali studi su Cosmè Tura, l’Officina Ferrarese, Mattia Preti, Orazio Borgianni, Battistello, Gentileschi padre e figlia, Correggio. I pittori futuristi, La Scultura Futurista di Boccioni, Carlo Carrà.
Una storia secondaria, a giudicare dal totale silenzio sotto il quale è caduta l’importante ricorrenza. Ma se questa superficialità, presso opinionisti o media, può essere metabolizzata magari con motivazioni sociologiche tratteggiate sopra, presso le istituzioni diventa una colpa. Grave. Ci ripetiamo, ma vogliamo correre il rischio di tediare i lettori: come giustificare che il loquacissimo ufficio stampa del Mibact, e quindi del ministro Dario Franceschini, nelle ultime ore diffonda comunicati e note stampa dedicate – con il massimo rispetto – al “documentario di Ennio Coccia per raccontare la digitalizzazione delle carte del processo Moro”, o al “Dinosauro Ciro su Youtube del Mibact”, ma non riesca a dedicare neanche due righe di memoria a un gigante come Longhi?