GUERRIGLIA. Dialoghi d’arte contemporanea emergente nei suoi contesti di r-esistenza
*3 – Roma – Sonia Andresano
Sonia Andresano è nata a Salerno nel 1983. Vive e lavora tra Roma e Milano. Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Roma e conseguito la Laurea in Storia dell’Arte presso l’Università La Sapienza di Roma.
Nei suoi lavori tematiche come l’attesa, il viaggio, il nomadismo e il cambiamento raccontano aspetti personali in continuo divenire. Le sue opere spaziano dalla scultura al video, dalla performance alla fotografia. È stata vincitrice del primo premio all’Apulia Land Art Festival (2017), oltre che finalista del premio Un’opera per il castello presso Castel Sant’Elmo (2019). Le sue opere sono state acquisite dall’Archivio video di Careof – Milano.
Roma e r-esistenza: la tua esperienza personale?
Roma non è la mia città di origine ma è sicuramente la mia città, sono qui da molti anni: rimanerci è diventata la mia forma di resistenza. Roma è insieme partenza e ritorno a casa. Sono rimasta incastrata qui: parto ma poi ritorno sempre. Nonostante sia caotica e sregolata riesce costantemente a toglierti il respiro regalando sempre nuove versioni di sé.
Per quanto si possa pensare di conoscerla a fondo lascia ogni volta increduli e stupefatti: è un amore folle, in senso letterale e metaforico, un odi et amo.
Per me la resistenza è sinonimo di resilienza, intesa come capacità di riadattarsi ogni volta, di resistere anche a ciò che può essere un evento traumatico. Significa restare in ascolto ponendo l’attenzione sulle possibilità infinite che si creano ad ogni movimento che compiamo. Gran parte dei miei traslochi e spostamenti sono avvenuti a Roma. Da tempo mi sposto da una casa all’altra, da un punto all’altro: non ho ancora trovato il mio “posto fisso”.
Le possibilità che si presentano ad ogni movimento sono inaspettate, fanno venire voglia di continuare a perdersi per poi cercarsi. Non mi interessa il punto di partenza o quello di arrivo ma il tragitto, il between, lo “stare tra”: in questo senso Roma è ancora il mio “stare tra”, senza approdare mai.
Nei tuoi lavori e nei tuoi spostamenti, come si ritrova la componente dell’obiettivo? Esiste una meta, un qualcosa di prefissato, o è una ricerca che esiste e sussiste di se stessa?
Non ci sono mete, cerco sempre di raccontare il passaggio, il movimento, il percorso.
Uno dei miei ultimi lavori che esplica meglio questo concetto è trasporto eccezionale (2020), realizzato a Palermo per KaOZ residencies Program, ciclo di residenze a cura di Lori Adragna e Andrea Kantos.
In questo caso è nato prima il titolo e poi il lavoro partendo dalla doppia accezione della formula “trasporto eccezionale”, intesa in gergo stradale come la movimentazione di qualcosa di dimensioni superiori al comune, oltre che come sentimento trascinante. L’Isola delle Femmine, luogo in cui il lavoro prende vita, è un sito che comprende sia una parte di terraferma sia l’isola prospiciente sulla quale c’è il divieto di approdo. Vi è quindi questa dicotomia del poter essere in due luoghi contemporaneamente, su uno dei quali, paradossalmente, non si può fisicamente attraccare.
Il camioncino di carta è su uno scoglio all’incrocio delle correnti, si muove solo perché accarezzato dal vento, non arriva mai realmente a toccare l’isola.
Il video racconta il movimento di un sentimento, un viaggio che non viene mai intrapreso fisicamente. Solo il suono si sposta, attraversa le acque tentando di arrivare a destinazione.
In relazione al tuo lavoro, che fa dello spostamento, del viaggio, dell’itinere dei punti chiave, che ruolo assumono la dimensione dell’habitus, dell’abitare, dell’abitudine, specie in una città come Roma?
C’è sempre una partenza e un ritorno a casa, o almeno un tentativo di ritornare alla casa del momento.
Nell’attimo in cui partiamo da un luogo, automaticamente generiamo un punto a cui potenzialmente fare ritorno.
In per filo e per segno (2018), un lavoro che parte da me, supera il perimetro e ritorna a me. Ciò che cambia ogni volta non è la partenza o l’arrivo ma il segno, la traccia lasciata dal tragitto. Anche in volver (2019) — tributo intenzionale al film di Pedro Almodóvar — vi è un riavvolgersi su se stessi, una necessità di tornare all’origine, un turbinoso movimento al contrario.
La casa non è solo un luogo fisico in cui abitare, è un insieme di interstizi, angoli, anfratti, dettagli.
Ogni gesto quotidiano si muove nella dimensione dell’abitudine, diventa quasi un automatismo come prendere il piatto dalla credenza o riporre lo spazzolino nel bicchiere sul lavandino.
Quello che cerco di sottolineare è il punto di vista inedito, l’inaspettato particolare nascosto in ogni luogo, ciò che noti quando per caso ti cade qualcosa sotto un mobile, quando ti accorgi che esistono nuove crepe sul soffitto o la polvere sotto i termosifoni.
Come si è sviluppato questo concetto in Permesso di Sosta e Fermata (2020), progetto per gli Atelier artistici ai Mercati di Traiano per Live Museum Live Change?
I Mercati di Traiano sono fuori dal tempo, lì ogni suono e ogni fessura assumono un significato diverso ogni volta che attraversi lo spazio. Una volta entrati si dimentica tutto il resto.
Permesso di sosta e fermata riprende nuovamente il linguaggio legato al codice della strada, richiamando fin dal titolo un’idea di lecita sospensione. L’intento del progetto era suggerire inediti punti di vista dello spazio permettendo allo spettatore di sostare in alcune aree non autorizzate.
Sostare significa fermarsi in un luogo per un tempo più o meno lungo, ma il tempo si muove anche quando rimaniamo immobili, seduti. Ci sono luoghi che si svelano solo se ci soffermiamo attentamente, si manifestano all’improvviso quando ci sembrava di aver visto tutto.
Con questa installazione sonora, i Mercati di Traiano si sono popolati di presenze: sedie, poltrone e sgabelli, oggetti provenienti da luoghi intimi e domestici dopo aver traslocato dalle case dei loro donatori.
Questa esplorazione condivisa, questo viaggio intimo e corale è stato il risultato di un vagare senza conoscere la meta, uno stare sul luogo accettando la sorpresa dell’inaspettato.
Parlando di punti di vista inediti, la tua mostra personale Allegra ma non troppo, curata da Daniela Cotimbo presso AlbumArte e visitabile fino al 17 luglio 2020, pare portare questo concetto all’apice attraverso lavori di periodi diversi che si rapportano coerentemente e organicamente l’uno con l’altro. Come si sviluppa questo viaggio?
Allegra ma non troppo è il video realizzato ad AlbumArte, subito dopo il lockdown, che dà il titolo alla mostra. Il soggetto è un insetto albino che vaga nello spazio vuoto: la mosca bianca, protagonista di altre esplorazioni.
In 3’43’’ AlbumArte si svela e lo sguardo si sofferma sulle sue pieghe in una sorta di esplorazione del luogo nel luogo, accompagnata da un audio dal sapore bucolico che spiazza e ci sposta altrove, all’esterno.
La mosca, una presenza molto insistente nelle nostre case, diventa il filo rosso di tutta l’esposizione.
Questa piccola scultura mostra l’inedito nell’ordinario, si mimetizza, gioca a una sorta di “caccia all’intruso”, si sposta in ogni sequenza fino a diventare un elemento accogliente. L’inquadratura conclusiva la ritrae, infatti, rivolta verso l’ingresso in attesa dei visitatori, il cui arrivo si percepisce dal suono che subentra sullo sfondo nero alla fine del video.
L’intera mostra si espande in un percorso dinamico: è un viaggio movimentato nel dettaglio, una scoperta di paesaggi quotidiani inaspettati.
Si apre con un robot aspirapolvere che vaga incerto chiedendosi che ci faccio qui? E si conclude con allegra ma non troppo, movimento musicale e stato d’animo insieme.
C’è un gioco di trasparenze e rimandi tra un’opera e l’altra, che si stimolano e si completano a vicenda. Come si sviluppano questa condizione e questi rapporti?
La scultura della mosca bianca si svela solo attraverso la fotografia e il video, non è mai presente fisicamente, non si espone al pubblico nella sua natura materica. Ciò che mi interessa è registrare la sua irrequietezza. Nel momento in cui l’occhio la mette a fuoco, l’intorno si manifesta e i luoghi si svelano. La mosca bianca non esiste in natura, simboleggia rarità e trasparenza insieme.
In altre due sculture esposte in mostra, ritorna l’idea di trasparenza. Mi riferisco a veicolo cieco (2020), calchi in resina di specchietti retrovisori di tir.
Lo specchietto, per sua natura, invita a guardare dietro, la strada percorsa. In questo caso, la parziale trasparenza del materiale sfida la visione a proseguire oltre. Si tenta quindi un attraversamento dell’opera stessa, un ribaltamento della visione protesa verso il futuro ma consapevole del passato. Ritorna di nuovo quel porsi “tra”, in una porzione di viaggio, nel segmento intermedio dove il davanti non è completo e il dietro è solo un riferimento iniziale non nitido.
Entrambe le sculture, collocate in due angoli ciechi, arrivano all’improvviso e propongono il passo successivo: sono punti di attraversamento, tappe fisse che accompagnano l’intera narrazione della mostra come fossero guide.
Il primo veicolo cieco è posizionato all’ingresso, si interpone tra lo spettatore e l’opera video che ci faccio qui? (2019), in cui la ricerca dell’inedito è affidata a un robot aspirapolvere. Il suo comportamento in un ambiente sconosciuto ricalca le sensazioni di spaesamento e destabilizzazione proprie della condizione del trovarsi nell’ignoto, unite alla necessità della scoperta proprie dell’essere umano. Vi è qui una raccolta di visioni inedite registrate dall’occhio della telecamera fissata sull’elettrodomestico.
Nella videoinstallazione mio padre e suo figlio (2017), invece, invito lo spettatore a salire dei gradini per raggiungere un punto di vista da cui sporgersi per fruire dell’opera non immediatamente offerta alla visione, come quando apri un cassetto e ti lasci sorprendere dal suo contenuto.
In tutto il percorso il filo della narrazione non si interrompe mai. La mostra è un attraversamento continuo in più direzioni che ha la mosca bianca come trait d’union: un invito ad andare sempre oltre, fermi a ponderare l’attimo che precede il volo.