L’eredità di Chadwick Boseman non si ferma a Black Panther. La sua morte non è un simbolo, ma lui sì
È morto Chadwick Boseman. La notizia è arrivata tramite un post sul suo account Twitter, in breve diventato il tweet con più interazioni di sempre nella storia della piattaforma. Famoso per aver interpretato il grande guerriero T’Challa nello stand alone della Marvel su Black Panther e nella saga degli Avengers, l’attore americano si è spento a 43 anni per un tumore al colon. Alla sua morte ha fatto seguito il cordoglio del pubblico, dei colleghi della famiglia Marvel e diverse star dello spettacolo. Un dolore universale, che si spiega con il significato che Black Panther e il suo protagonista hanno avuto per la comunità black non soltanto negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo.
«Non ho mai sofferto una perdita così acuta prima. Ho passato l’ultimo anno a preparare, immaginare e scrivere parole da fargli dire, scene che non eravamo destinati a girare. Resto attonito al pensiero che non potrò più vederlo in primo piano sul monitor, o avvicinarmi a lui e chiedergli un’altra ripresa» ha scritto sulle pagine di Variety Ryan Coogler, il regista di Black Panther.
Non è un segreto che Chadwick Boseman stesse vivendo il suo momento di gloria. Prima di diventare un supereroe, l’attore aveva già prestato il volto ad altre icone della cultura afroamericana: da Jackie Robinson (il primo giocatore di baseball afroamericano a giocare nella Major League) nel film 42 – La vera storia di una leggenda americana (Brian Helgeland, 2013), al cantante James Brown, “The Godfather of Soul”, in Get on Up – La storia di James Brown (Tate Taylor, 2014) e ancora il giovane avvocato Thurgood Marshall, il primo afroamericano nominato giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America in Marcia per la libertà (2017).
Infine, nel 2018 Black Panther gli ha aperto ufficialmente le porte di Hollywood trasformandolo una volta per tutte in un simbolo dell’attivismo black. Non a caso, il suo ultimo gettone sul grande schermo (più o meno) è stato quel piccolo, importantissimo ruolo nel nuovo film di Spike Lee: Da 5 Bloods – Come fratelli, su Netflix.
Inutile negarlo: se il suo volto sarà incluso nel montaggio In Memoriam della prossima edizione degli Oscar®, il merito è soprattutto dell’impatto che Black Panther ha avuto sull’industria dell’intrattenimento.
Prima di un film, Black Panther è stato un fenomeno culturale. In un mondo fulminato dal razzismo e dalla xenofobia, due anni dopo la nomina di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti, Black Panther non è stato solo il primo blockbuster (americano) ad avere come protagonista un supereroe nero, ma anche il primo film sui supereroi Marvel ad avere un cast composto in maggioranza da attori neri (Michael B. Jordan, Danai Gurira, Angela Bassett, Daniel Kaluuya, Forest Whitaker, Letitia Wright e ovviamente Lupita Nyong’o), nonché il primo scritto e diretto da un regista nero (Ryan Coogler).
L’orgoglio black è evidente fin dal gesto e dallo slogan “Wakanda”, in breve diventati simboli del black power ben oltre il Marvel Cinematic Universe (MCU) e ben oltre la black community. Il suo successo commerciale è stato straordinario: con oltre 1,3 miliardi di dollari incassati, Black Panther è diventato in poche settimane il secondo film più visto nel 2018 (secondo solo ad Avengers: Endgame) guadagnandosi il 12esimo posto nella classifica dei film più visti di sempre nella storia del cinema, fino alla candidatura all’Oscar® come miglior film, diventando così il primo film sui supereroi a godere di tanto prestigio. In un modo o nell’altro, Black Panther ha cambiato l’industria cinematografica.
«To be young, gifted and Black» aveva detto Boseman, citando le parole di Nina Simone, durante il discorso di ringraziamento per lo Screen Actor Award, ricevuto proprio la sua interpretazione del re T’Challa: «Sappiamo tutti cosa vuol dire sentirsi dire che non c’è un posto per noi. Perché sei giovane, dotato e… nero. Sappiamo cosa si prova a sentirsi dire che non c’è uno schermo che ci possa ospitare, un palco su cui possiamo salire. Sappiamo cosa vuol dire essere la coda e non la testa».
«Questa è la consapevolezza con cui andavamo a lavorare ogni giorno – aveva continuato – a dentro di noi sapevamo che avevamo qualcosa di speciale e lo volevamo dare al mondo. Che potevamo essere esseri umani a pieno titolo, anche nei ruoli che stavamo interpretando. Che avremmo potuto creare un mondo che simile a quello che volevamo vedere».
In effetti, da quando Black Panther ha conquistato il box office di tutti e cinque i continenti, nel panorama dell’industria cinematografica contemporanea qualcosa è davvero cambiato. Nel 2019, nemmeno a dirlo, la pellicola non ha vinto l’Oscar® per il miglior film, perdendo in favore di Green Book. Non solo, l’Academy ha scelto di premiare con l’Oscar Mahershala Ali, Regina King e Rami Malek: si trattò del più grande gruppo di minoranze a vincere l’ambita statuetta nella storia dell’Academy. Da lì in poi, la rappresentazione della comunità black al cinema e nei media (iniziata “ufficialmente” più di trent’anni fa con Fa’ la cosa giusta di Spike Lee) ha preso sempre più piede anche nell’industria cinematografica mainstream: da BlacKkKlansman (sempre di Spike Lee) a Queen & Slim di Melina Matsoukas, fino a When They See Us, la serie-evento ideata da Ava DuVernay (la regista di Selma – La strada per la libertà).
Nel mondo omerico, la morte dell’eroe era solo il principio: attraverso il massimo sacrificio, quello della vita stessa, l’eroe compiva il suo destino e conquistava l’immortalità. Amen. In un’estate iniziata con l’omicidio di George Floyd e le proteste Black Lives Matter e giunta alla fine di agosto con la notizia dell’ennesima sparatoria della polizia nei confronti di un afroamericano, la morte di Chadwick Boseman fa ancora più impressione perché non significa niente. Questa volta non ci sono movimenti civili, poliziotti crudeli o le acque di un lago profondo a canalizzare la rabbia di una generazione che non sa affrontare una tragedia se non c’è una lezione da imparare (o da impartire). Ma in fin dei conti, poco importa: la sua morte non sarà un simbolo, ma lui sì.
«Avremo sempre Parigi» sussurrava Ingrid Bergman all’orecchio di Humphrey Bogart in Casablanca. Il succo è lo stesso: avremo sempre Black Panther e tutto quello che ha significato per il cinema, la cultura popolare e più semplicemente per noi. Per quanto sembri fuorviante, quasi una bestemmia, non è sciocco pensare che senza Black Panther ci sarebbero stati molti meno manifestanti bianchi alle proteste. Quindi Wakanda. Wakanda Forever.