#Venezia77. Assandira, l’esasperato incontro tra vecchio e nuovo in una Sardegna che brucia. Il nuovo film di Salvatore Mereu, al cinema dal 9 settembre
La pioggia scroscia impetuosa su ciò che è rimasto dell’agriturismo Assandira, estinguendo le ultime fiamme del rogo che lo ha divorato. Ne impregna la terra e inzuppa i vestiti, sciacquando via i peccati dalle carcasse del bestiame, un’estrema unzione che sa di blasfemo. Costantino Saru, il volto color del carbone, regge tra le braccia il corpo esanime del figlio, morto nell’incendio. Lo stringe a sé, lottando contro chiunque voglia portarglielo via, perché “il fuoco e l’acqua hanno spento molte cose, ma l’acqua un male come questo non lo spegne. E non spegne neanche la vergogna”.
Salvatore Mereu (Bellas mariposas) torna per la terza volta a Venezia dove ha esordito nel 2003 con Ballo a tre passi, premiato alla Settimana Internazionale della Critica e David di Donatello per il miglior regista esordiente. Ispirato all’omonimo libro di Giulio Angioni, Assandira – fuori concorso alla 77ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia – gode della folgorante interpretazione di Gavino Ledda (scrittore e poeta sardo, autore del celebre romanzo Padre Padrone) nel ruolo dell’anziano protagonista. Il suo Costantino è un uomo semplice che mangia la carne con le mani e tiene sempre addosso la stessa camicia. È burbero, scontroso, ostile verso ciò che non gli è familiare e si esprime in dialetto stretto anche con chi non lo può capire, ma ha un animo buono, seppur saldamente ancorato alla tradizione. Quando il figlio Mario (Marco Zucca) torna dalla Germania assieme alla voluttuosa compagna Grete (Anna König), l’incontro tra vecchio e nuovo fa presto a trasformarsi in scontro.
Il motivo della disputa è proprio Assandira, l’agriturismo che la coppia vuole costruire sui resti dell’ovile che l’uomo ha abbandonato da tempo: per loro si tratterebbe di un’attrazione turistica, per lui della dissacrazione di un sapere storico. Ma “ai vecchi non conviene discutere coi giovani, perché perdono sempre” e Costantino alla fine acconsente, indossa l’abito da pastore come fosse un costume teatrale e posa per le foto dei visitatori. In un istante, secoli di folclore si tramutano in mero intrattenimento per turisti con faccioni pallidi e camicie colorate che si godono lo spettacolo di una cultura svilita e afflitta, gettata vilmente in pasto alle masse in nome del denaro. Fino alla notte in cui Assandira viene rasa al suolo dalle fiamme.
Interrogato dal giudice Pestis (Corrado Giannetti), Costantino risponde in maniera sconclusionata ed esitante: non può raccontargli la verità, perché la verità brucia dentro di lui più dell’incendio. Si assume dunque ogni colpa, mortificato dalla vergogna per aver permesso al rigido e austero mondo di un tempo di piegarsi alla mollezza del presente. Niente più regole, tutto diventa gioco e i confini inviolabili della tradizione vengono valicati e profanati da una modernità frivola e promiscua.
Ma chi ha appiccato l’incendio? Non lo sapremo mai. E forse nemmeno c’importa. Il vero reato a cui il film fa riferimento è la violenza nei confronti di un passato che sopravvive unicamente attraverso la sua manifestazione in riti arcaici ormai ridotti alla macchietta. Un passato che, costretto a pagare i crimini del presente, è “stanco”, come sussurra Costantino nella sua ultima battuta. Un passato che, come la parola Assandira, esiste da sempre e quindi nessuno è più in grado di interpretarne il significato.