Alessandra Sarritzu (Cagliari, 1991) è un’artista sarda che da anni risiede a Bologna, città dove ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti e nella quale ha fondato, insieme ad altri colleghi, l’artist-run space SottoSuolo.
Pur trovandosi da anni in questa città lontana dall’isola che le ha dato i natali, Alessandra ha mantenuto nel corso degli anni un legame saldo con questo luogo. Proprio in Sardegna è tra i membri di Transhumanza, progetto itinerante che ha come suo centro il territorio e le aree rurali dell’isola.
Le opere di Alessandra sono il frutto di una sensibilità vivace, tutta la sua ricerca è percorsa da un’urgenza: quella di indagare la memoria, di esplorarne lo spazio producendo immagini che evocano il passaggio del tempo sulle superfici e il costante lavorio della mente, in una sovrapposizione continua tra personale e collettivo.
Cosa significa essere un’artista e quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
Non so bene come rispondere alla domanda “cosa significa essere un artista?” ma sicuramente penso sia un modo di vivere la vita, un modo di vedere e di percepire la realtà e la società in cui viviamo, in cui è sempre presente la necessità di restituire le esperienze e innescare emozioni. Fin da piccola ero affascinata dalle opere d’arte e mi piaceva molto disegnare. Crescendo, l’interesse è diventato maggiore e mi sono iscritta al liceo artistico di Cagliari. Successivamente ho studiato all’Accademia di belle arti di Bologna e all’Università Politecnica di Valencia (SP). Durante questo percorso ho avuto la possibilità di sperimentare diversi mezzi e di definire una certa progettualità.
Le mie opere nascono spesso dal recupero di video o di immagini d’archivio e di repertorio, personale o esterno, e si sviluppano attraverso vari linguaggi come la fotografia, la cianotipia, il suono e le installazioni.
Rispetto a qualche anno fa è cambiata la consapevolezza con cui mi relaziono al lavoro, sia a livello concettuale, sia pratico, e la sicurezza con cui affronto e sviluppo la mia ricerca artistica.
Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
La mia ricerca si concentra su diversi temi come quello dell’identità, della memoria, dello scorrere del tempo e sul rapporto tra arte, natura e società, utilizzando un approccio caratterizzato da una forte componente intimistica che si estende alla collettività.
Uno dei progetti a cui ho lavorato tanto negli ultimi anni è Rimembranze familiari, che nasce con il recupero di alcuni filmati d’infanzia in VHS da cui catturo dei frame. Tramite questa pratica, c’è la volontà di recuperare le memorie di un passato che, nella loro inevitabile versione parziale e restaurata, continuano a influenzare il modo in cui pensiamo al presente. La memoria e il ricordo sono sistemi operativi che hanno bisogno di essere continuamente rielaborati per restare attuali. Ho scelto l’archivio come mezzo per riattivare il presente attraverso la memoria, ripensando e raccontando quelle tracce e quei frammenti sotto forma di storie. Ragionando quindi sulle mie origini e attraverso la scelta e la manipolazione di un personale materiale d’archivio, sviluppo delle immagini trasfigurate, quasi sfuggenti, che rappresentano una parte del mio vissuto che riemerge e che possono essere lette come una sorta di autoritratto.
In questi ultimi mesi ho iniziato a lavorare a un nuovo progetto dal titolo The black paradise, che nasce per creare una riflessione sull’ambivalenza che alcuni luoghi suscitano: le isole, per esempio, rappresentano nell’immaginario comune dei luoghi utopici, privi di drammi e di ansie, in cui, lontani dal resto del mondo, ci si può isolare e concentrarsi solo su ciò che per noi è importante. Luoghi che evocano tante immagini, storie e desideri, e che appaiono come un approdo pacifico, un rifugio o una meta desiderata. Questi luoghi però possono svelarci anche terribili avvenimenti: ci parlano infatti di morti, di malformazioni e di violenza. Si tratta di terre che le grandi nazioni della storia hanno individuato come colonie da poter sfruttare e martoriare e in cui poter violare i diritti internazionali e innescare catastrofi ecologiche. Come quelle piccole isole del Pacifico, anche la Sardegna, è stata scelta dagli Stati Uniti come luogo per condurre test missilistici, sperimentare la potenza di armi tecnologicamente avanzate e per lo smaltimento di bombe e munizioni obsolete. Il progetto si sofferma anche sul concetto di antropocene e di biodiversità, sottolineando quindi il ruolo dell’uomo nel determinare e modellare l’ambiente circostante.
Come ti rapporti con la città e il contesto culturale in cui vivi?
Da circa otto anni vivo a Bologna ma periodicamente faccio ritorno in Sardegna, soprattutto perché le tematiche che porto avanti tramite i miei lavori nascono spesso in relazione a quel territorio, condensando storia personale e memoria collettiva.
Da quasi due anni faccio parte del collettivo Transhumanza (insieme a Ambra Iride Sechi, Dario Sanna e Matteo Orani) che ha l’esigenza di creare una connessione tra la ricerca artistica contemporanea e le zone rurali della Sardegna, quindi per diversi periodi dell’anno sono impegnata nell’isola.
Bologna è ricca di eventi culturali ed è una città a cui sono molto affezionata, che mi permette di avere un confronto e di raccogliere gli stimoli necessari per continuare a crescere a livello personale, professionale e artistico.
Cosa pensi del “sistema dell’arte contemporanea”?
Penso che il mondo dell’arte in Italia sia un mondo complesso soprattutto per i giovani artisti e per gli artisti emergenti, in quanto si vive una condizione generale di incertezza e precarietà, dovuto anche al fatto che la figura dell’artista non è ufficialmente riconosciuta come una qualsiasi altra professione. Un dato positivo è che oggi gli artisti possono far conoscere il proprio lavoro e la propria ricerca anche attraverso realtà indipendenti e utilizzando i vari canali di comunicazione slegati da quelli istituzionali. I project space, hanno un grandissimo potenziale nel creare un vero dialogo tra chi “fa” e chi “osserva” e sono una risorsa imprescindibile per artisti e non.
Di quale argomento, oggi, vorresti parlare?
Vorrei continuare a parlare di luoghi, fisici e mentali. Pochi giorni fa ho iniziato la lettura di un romanzo d’inchiesta contemporaneo, Perdas de fogu, scritto da Massimo Carlotto e dal gruppo di scrittori uniti nella sigla Mama Sabot. Si tratta di una lunga e meticolosa indagine, una denuncia coraggiosa, un noir incentrato sui danni biologici e ambientali provocati dal Poligono Interforze Salto di Quirra – Capo San Lorenzo, il più vasto poligono militare d’Europa, che si estende per 11.600 ettari nell’entroterra e 1.100 ettari lungo la fascia costiera (San Lorenzo) in Sardegna. Penso sia una lettura importante e interessante, che fa emergere fatti che ancora sembrano avvolti da una cappa di silenzio, mettendo in luce verità scomode, coinvolgendo emotivamente il lettore e informandolo al contempo su una vicenda drammaticamente reale. Una vicenda che ci parla di inquinamento mortale, guerra e omertà.
Questo contenuto è stato realizzato da Alessandra Cecchini per Forme Uniche.
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