Margherita Sarfatti e l’arte in Italia tra le due guerre è la mostra che la Galleria Russo di Roma dedicata alla critica d’arte. A cura di Fabio Benzi dal 10 al 31 ottobre 2020.
Mario Sironi, Achille Funi, Adolfo Wildt, Umberto Boccioni, Anselmo Bucci, Piero Marussig, Gino Severini, Medardo Rosso…sono tanti gli artisti adunati nella Galleria Russo per rendere omaggio, con la studiata, misurata bellezza delle loro opere, a Margherita Sarfatti (Venezia, 1880 – Como, 1961) intellettuale sofisticata e cosmopolita; giornalista prolifica (fu anche condirettrice di Gerarchia, la rivista ufficiale del Fascismo); vulcanica, tenace, ambiziosa organizzatrice di manifestazioni d’arte e lungimirante promotrice di artisti (Sironi e Wildt furono una sua scoperta); influente amante di Mussolini e sua celebre biografa (il bestseller Dux ebbe subito diffusione mondiale).
Nata in una famiglia ebraica della ricca borghesia veneziana, nel ’38 – anno delle leggi razziali – lasciò l’Italia, per farvi ritorno nel ’47 e dedicò gli ultimi anni della sua vita ai viaggi e alla scrittura. Pubblicò un libro di memorie – Acqua passata– nel quale Mussolini non viene mai menzionato. “Una Guggenheim italiana”, la definisce il curatore Fabio Benzi nel saggio incluso nel catalogo, e le opere esposte – provenienti quasi tutte dalla preziosissima collezione Sarfatti – lo documentano ampiamente. Nel ’22 fondò a Milano il Gruppo del Novecento, un Movimento anti-avanguardistico dal nome audace (che palesava il proposito ambizioso di rappresentare il volto artistico del secolo), all’insegna di un “ritorno all’ordine”, di un ritorno, cioè, alle forme classiche della tradizione italiana intrise, però, nell’humus composito della modernità.
Se il Futurismo inseguiva chimericamente il sogno velleitario di catturare l’attimo vitale, intravedendolo nel moto fittizio del colore e del segno, il Novecento, dal canto suo, nel rigore plastico-formale affrancato – in apparenza – dai capricci del tempo, accarezzava un altrettanto utopistico ideale di eternità. Benzi documenta anche il reiterato tentativo della Sarfatti di ratificare l’istituzione di un’arte di Stato, di un’arte fascista che fosse ufficialmente rappresentata dal suo Novecento; e documenta parimenti il reiterato diniego del Duce, riportando, tra l’altro, uno stralcio del discorso che questi tenne nel ‘22 all’inaugurazione della mostra dei novecentisti alla galleria Pesaro di Milano:
E’ lungi da me l’idea di incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all’arte di Stato… Lo Stato ha un solo dovere: quello di non sabotare l’arte, di dar condizioni umane agli artisti, di incoraggiarli dal punto di vista artistico e nazionale
Come si sa (anche se poco si dice), all’indomani della caduta del Fascismo, da parte di politici, intellettuali, artisti, vi fu una corsa forsennata a rifarsi una verginità. Margherita Sarfatti, dignitosamente, scelse il silenzio.