Il 6 ottobre 2020, l’Assemblea Nazionale ha approvato all’unanimità la legge per il ritorno di 27 manufatti africani, entro un anno, agli stati di Benin e Senegal. L’iniziativa si configura come il primo rimpatrio permanente di oggetti saccheggiati dall’esercito francese durante le missioni coloniali in Africa, consacrandosi come un momento di rilevanza storica per entrambe le parti.
Il ministro del commercio estero Franck Riester ha dichiarato che: “la restituzione di questi bottini di guerra mostra la volontà di rafforzare la cooperazione coi due paesi africani”. In effetti, tre anni fa il presidente Emmanuel Macron aveva promesso di restituire parte del patrimonio africano – divenuto proprietà della collezione nazionale a seguito di saccheggi in epoca coloniale – alla sua terra d’origine.
La legge entrata in vigore è composta da due articoli. Il primo concerne la restituzione alla Repubblica del Benin 26 reperti conservati al Musée du Quai Branly Jacques Chirac di Parigi: si tratta del “Tesoro di Behanzin”, precedentemente locato nel palazzo reale di Abomey e ingiustamente rimosso dalle truppe francesi nel 1892, mettendo così fine al regno di Dahomey.
Il secondo articolo, invece, prevede la riconsegna alla Repubblica del Senegal di una sciabola con fodero, appartenente alla collezione del Musée de l’Armée, ora esposta al Museé des Civilisations Noires di Dakar, in quanto prestito di lunga durata.
La mossa francese ha fatto da apripista per ulteriori richieste di ritorno di manufatti africani: nel 2019, Etiopia, Chad e Costa d’Avorio hanno chiesto il rimpatrio di vari pezzi autoctoni presenti nelle collezioni nazionali francesi; quest’anno, Mali e Madagascar hanno proceduto con la stessa richiesta.
Tuttavia, il ministro della cultura francese Roselyne Bachelot ha asserito che in alcun modo le restituzioni a Benin e Senegal mettono in discussione il principio di inalienabilità del patrimonio statale, secondo cui i “beni appartenenti alle collezioni dei Musei di Francia […] sono tesori nazionali” (L. 111-1 del Codice del patrimonio francese) – da cui è derivata la necessità di una legge che rendesse possibile la resa.
Pare che nel 2017, il discorso di Macron a proposito del rimpatrio avesse preso alla sprovvista persino gli stessi musei francesi direttamente interessati: in quella circostanza, il presidente aveva spiegato di voler creare, entro cinque anni, un contesto fertile per “restituzioni temporanee o definitive del patrimonio africano in Africa”.
Si era anche ipotizzato che, viste le limitazioni dei musei africani, la Francia volesse avviare le restituzioni con lo scopo finale di siglare un accordo simile a quello con il Louvre-Abu Dhabi. In quest’ultimo, infatti, la Repubblica francese non solo presta il nome del Louvre per 30 anni al museo, ma si impegna a organizzare quattro mostre annuali per 15 anni attraverso prestiti di opere provenienti dall’Agence France-Muséums, che accorpa 13 grandi musei francesi, tra cui il Musée du Quai Branly Jacques Chirac.
In un futuro prossimo, l’esempio potrebbe essere seguito da altri paesi con un passato colonialista che, al pari della Francia, possiedono opere e manufatti extra-nazionali. I marmi di Elgin greci si trovano all’interno del British Museum di Londra; lo stesso Benin è stato vittima di una razzia inglese che, oltre a causare uccisioni e mutilazioni, ha dislocato più di 4000 manufatti; il Museo Reale belga detiene manufatti congolesi fabbricati migliaia di anni fa; quasi 300 statue commemorative di legno appartenenti al gruppo etnico Mijikenda in Kenya sono state scovate in 19 musei americani. E questo solo per citare alcuni esempi.