Cinzia Pietribiasi (Vicenza, 1979) è un’attrice, danz’autrice, regista e artista digitale italo slovena.
Dopo un laurea in Beni Culturali si è diplomata, a pieni voti, nel Master I livello “La formazione del clown al servizio della persona”, nel corso di Alta Formazione Universitaria “Il Teatro come strumento delle professionalità educative” e nel biennio specialistico di Nuove Tecnologie dell’Arte all’Accademia di Brera. Attraverso il suo fare unisce molteplici spinte creative dando vita a progetti che soddisfano la volontà di intrecciare linguaggi e percorsi differenti. Nel 2012 fonda, insieme a Pierluigi Tedeschi, la compagnia Pietribiasi/Tedeschi e nel 2019 intraprende, insieme a Lorenzo Belardinelli, un percorso di creazione multimediale che porterà alla formazione del progetto JAN VOXEL.
Dialogando con Cinzia abbiamo approfondito il suo percorso eterogeneo cercando di capire cosa significhi sviluppare strade transdisciplinari nel panorama artistico italiano di oggi.
Il teatro è stato sicuramente uno dei punti cardine della tua ricerca. Cosa ti ha condotto, e in che modo, ad avvicinarti alla ricerca scenica?
Mi sono innamorata del teatro a sedici anni, quando per caso trovai un volantino che pubblicizzava un laboratorio teatrale in Veneto. Non avevo mai fatto teatro ma per qualche motivo la mia curiosità si accese. Probabilmente, con quell’esperienza, ho capito che avrei voluto intraprendere una strada artistica. Ho iniziato la mia formazione universitaria studiando beni culturali a Parma, nel contempo continuavo a fare teatro col CUT (Centro Universitario Teatrale), che all’epoca forniva una bellissima rete di dialogo tra i diversi centri universitari. Sono stati anche gli anni in cui ho capito che nonostante mi fossi formata nell’ambito del teatro fisico e della danza non sarei mai stata un’attrice da provino, quel mondo mi costringeva a fare compromessi che non volevo accettare.
Rendi le tue debolezze i tuoi punti di forza, si dice spesso. Sei riuscita a sfruttare tutto questo a tuo favore?
Dal 2000 ho iniziato a capire che ciò che poteva stimolare e rafforzare la mia pratica era la possibilità di creare gruppo mettendo insieme persone che ritenevo potessero essere stimolanti per lo sviluppo di un progetto comune. Ho fondato compagnie che hanno avuto vite diverse, con Zenit-Azioni siamo anche arrivati in semifinale per due premi Scenario, nel 2009 e nel 2011.
La grande domanda di quegli anni era capire come canalizzare tutte le cose che stavo facendo, la mia formazione, il lavoro fatto con le compagnie e la ricerca scenica, in qualcosa che potesse essere la mia professione.
Hai trovato una risposta?
L’ho trovata nel convogliare tutto quello che avevo sperimentato col teatro, nella produzione di laboratori di ricerca scenica. Nel 2008 ho iniziato a fare progetti nelle scuole curando l’organizzazione, il concept, la scrittura e la messa in scena degli spettacoli. Fare teatro nei contesti scolastici e con gli utenti psichiatrici ha avuto per me un valore inestimabile, sia come artista sia come professionista, in essi ho trovato grande spazio per la sperimentazione. Non potrei appassionare al teatro se non amassi questo lavoro, se non amassi la ricerca scenica. Ai ragazzi con cui ho lavorato ho cercato di mostrare che c’è un universo infinito di linguaggi, un mondo di possibilità e soprattutto che il teatro è gioia creativa. Dopo dodici anni di costruzione di progetti su misura per classi con disagi, scuole dell’infanzia, utenti psichiatrici a Bologna, nel 2012 ho fondato la compagnia stabile Pietribiasi/Tedeschi, con Pierluigi Tedeschi. Insieme a lui scrivo progetti principalmente legati alla performance multimediale che dal 2012 ha iniziato a entrare molto in relazione con la mia ricerca scenica.
Come è strutturata la vostra compagnia?
Io mi occupo prevalentemente della regia e della creazione dei contenuti multimediali, mentre Pierluigi si occupa di scrittura e poi supporta la parte di regia. A volte siamo in scena assieme, in altre occasioni collaboriamo con danzatori contemporanei e musicisti, come è accaduto nell’ultimo lavoro, Padre d’amore, padre di fango, che ha debuttato a Kilowatt Festival, dove sono in scena con mia sorella, giovanissima cantautrice.
Dal lavoro svolto nei laboratori, e poi con la tua compagnia stabile, come sei arrivata a scegliere di intraprendere un biennio specialistico all’Accademia di Brera?
La decisione di un biennio è arrivata quando la situazione dopo il 2012 è iniziata a peggiorare, i fondi erano sempre meno e la qualità dei progetti avrebbe rischiato di abbassarsi molto. Ho continuato a seguire i laboratori di video che tenevo nelle scuole medie dove stavo sviluppando progetti sul cyber bullismo. Intanto ho deciso di iscrivermi al biennio di Nuove Tecnologie dell’Arte all’Accademia di Brera a Milano, scegliendo di specializzarmi in Arti Multimediali Interattive e Performative, un corso volto alla progettazione artistica con l’utilizzo di strumenti digitali. Ancora una volta stavo cercando di intrecciare tutte le spinte artistiche che avevo sviluppato negli anni passati.
La tua storia mi riporta a chi in questi casi potrebbe dire “Jack of all trades master of none”. C’è una certa differenza di ragionamento tra chi è portato a essere uno specialista in un solo campo, e chi invece, seguendo una linea di pensiero orizzontale, tende a espandere il proprio dominio di competenze in altri settori. Ho l’impressione che il mondo si spinga verso la costruzione di un sapere specifico e settoriale, non tenendo conto che solo attraverso un’operazione di inclusione dei saperi acquisiti è possibile creare innovazione. Come è stato il percorso in Brera, hai trovato un punto di congiunzione?
Il biennio specialistico ha consolidato delle strutture e ne ha create di molte altre. Mi si sono aperte molte strade di ricerca e il progetto che sto sviluppando a conclusione di questo percorso ne è testimone. Si tratta di un progetto tra arte e scienza che tenta di raccogliere le nuove sfide poste dall’Antropocene. Le domande di partenza riguardano la responsabilità dell’artista e il senso del gesto artistico in un’epoca in cui noi esseri umani siamo i fautori del danneggiamento del pianeta. Ho lavorato analizzando attraverso l’uso di una centralina di rilevazione del particolato la concentrazione di polveri sottili nell’aria. I dati che ho ottenuto sono stati poi visualizzati e sonorizzati per mostrare a livello sensoriale che cosa è presente nell’aria che respiriamo.
Il titolo di questo progetto è The Critters Room, che nello slang americano è usato come un nomignolo, qualcosa che assomiglia all’italiano “creaturina” o “mostriciattolo”. Ci racconti come verrà formalizzato?
La parola Critters fa un esplicito riferimento al pensiero di Donna Haraway, filosofa statunitense. Per Haraway, i Critters sono tutte quelle creature viventi e non viventi con cui gli esseri umani devono entrare in relazione simbiotica, imparando in tal senso da organismi come i licheni, che sono una relazione simbiotica tra un’alga e un fungo. Riflettere sulla relazione simbiotica è chiedersi cos’è la natura e l’identità di un essere. Pensiamo al nostro corpo: il nostro microbiota è l’insieme di trilioni di microrganismi che vivono in simbiosi con noi. The Critters Room è dunque un’installazione interattiva e multimediale che vuole occuparsi dei Critters che popolano l’aria. Si tratta di un esercizio di immaginazione: dal punto di vista scientifico quei Critters sono le polveri sottili, particelle solide che aleggiano nell’aria, anche da migliaia di anni. Ho pensato di raccogliere i Critters dell’aria esponendo per 12 ore, ogni giorno, un vetrino da microscopio. L’intento è di archiviare 365 vetrini, un anno di critters, raccogliendo la memoria dell’aria che respiriamo. L’altro ingrediente dell’installazione sono i dati di concentrazione delle polveri sottili che provengono dalle centraline autocostruite che aderiscono al progetto di citizen science Luftdaten. Assieme a Lorenzo Belardinelli ho programmato un complesso sistema di interazione in cui i vetrini vengono riconosciuti da un microscopio digitale. Il riconoscimento attiva il sistema di sonorizzazione e visualizzazione dei dati della relativa giornata. Infine, il progetto fotografico: ho posto le foto dei vetrini in sequenza creando pattern di Critters. In seguito ho sovrapposto i pattern alle fotografie dei luoghi esatti dove sono state collocate le centraline di controllo dell’aria. L’intento è rendere visibili i fantasmi del quotidiano negli spazi della città che ospitano le centraline.
Frequentando Brera hai rafforzato il sodalizio artistico con Lorenzo Belardinelli e insieme avete creato l’esperienza JAN VOXELl. Chi è JAN VOXEL?
Jan Voxel è un esercizio di immaginazione: abbiamo pensato a un mitico cavaliere prussiano che sia un terzo personaggio – un ibrido – tra la mia sensibilità artistica e le competenze informatiche di Lorenzo. Abbiamo cominciato a fare ricerca per il bisogno di mettere assieme le nostre conoscenze nell’ambito dell’arte digitale, e così abbiamo sviluppato un primo lavoro dal nome My Body Atlas, un progetto di mappatura del corpo. Le cose prima o poi ritornano, il mio background teatrale è estremamente legato allo sviluppo di questo progetto, perché quello che viene osservato in questa “geografia fantastica” è l’interno del mio corpo, attraverso sette radiografie che mi appartengono.
Chi guarda è invitato a procedere oltre il primo livello di lettura (la radiografia) per arrivare al livello interpretativo più profondo (la geografia). Il gesto artistico si concretizza in una arbitraria decisione di sottolineature, di emersione di segni inscritti nelle parti anatomiche.
Non è una mera esposizione allo sguardo esterno; non una penetrazione voyeuristica in ciò che c’è di più intimo e privato nel corpo (l’apparato scheletrico e gli organi), ma piuttosto la messa in scena della bellezza dei perimetri e dei contorni delle masse organiche.
Come verrà presentato My Body Atlas?
Il progetto è composto da un video e sette frame stampati su carta. Le animazioni grafiche e le ragnatele di linee che si dipanano da un punto all’altro dell’immagine, creando un’atmosfera di tensione al limite della rottura, e i soundscape sono stati totalmente creati con linguaggi di programmazione. Insieme al video presentiamo anche tre fogli di lavoro in cui è stampato il codice utilizzato e le correzioni a testimoniare la ricerca e il processo creativo, quasi come fossero gli appunti, le bozze dell’artista.
A chiudere il progetto, una light box che retroillumina sette radiografie originali che appartengono ad altrettanti amici, dove il reticolo inizialmente programmato in codice è stato realizzato cucendo a mano con ago e filo la lastra. Abbiamo voluto recuperare un linguaggio analogico tradizionale mettendolo in relazione con le nuove tecnologie. C’è quasi una volontà di superare il qui e ora umano per fare spazio al corpo come possibile paleo-paesaggio, superare il “tempo umano” collegandosi ad un “tempo geologico”.
La compagnia Pietribiasi/Tedeschi, i critters, My Body Atlas, sembrano tutte parti di un percorso molto eterogeneo, che ricerca punti di sintesi e libertà di sperimentazione. Dove si sta dirigendo il tuo percorso e come pensi sia percepito questo approccio multidisciplinare nel panorama artistico contemporaneo?
Sto continuando ad approfondire i linguaggi di programmazione, il cosiddetto creative coding. Sono molto appassionata, trovo un aspetto creativo e artistico enorme nello scrivere codici perché equivale a plasmare la materia grezza. In generale ho fatto e faccio tante cose diverse e, anche se il mio profilo artistico è difficile da inquadrare, in me è molto forte la spinta a ricercare, una forza a cui non posso rinunciare.
Questo contenuto è stato realizzato da Mida Fiore per Forme Uniche.
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