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Scotoma. L’arte ha bisogno, comunque, di ciò che lo spettatore osserva

Alfred Hitchcock, Vertigo, 1958
Alfred Hitchcock, Vertigo, 1958

Il “buongiorno” dell’arte è un caffè con la Moka. Senza zucchero.

Cosa può fare realmente una mente? Una mente che parla, da cosa crea e chi ascolta?

Una mente di una vecchia signora che invita un onesto gallerista nel suo gigante appartamento. “Ho alcune opere in casa. Sono anziana e i miei figli e nipoti non vogliono la mia arte. A me piacciono, ma capisce…” – Apre la porta. La casa è stanca. Alcuni mobili coperti e dell’intonaco opaco. Tanti candelabri a terra. Un divano rosso magenta. Dei cuscini gialli. Le cornici sono splendenti e di quel vecchio-bello che spesso viene dato scontato come vintage. Fotografie di bambini, nipoti ora sposati, ora disoccupati, ora in bilico.

È nei second-hand che comprendi il valore della provenienza. Iniziano a passeggiare lentamente e l’onesto gallerista aveva già compreso ma assecondava. Tutto era poco interessante. L’arte c’era ma non aveva un valore economico.

L’onesto gallerista passa in rassegna tutti i quadri, dissipati lungo tutto il corridoio. Trenta ritratti, paesaggi, madonne, bambini, animali. La rassegna umana di una famiglia antica del Nord Italia. “Questo è il quadro più importante, da qualche parte ho i documenti, mio marito ed io abbiamo sempre prestato questo quadro.

Erano a metà corridoio. La fine non si intravedeva, non si notava alcuna forma architettonica.

Posso chiederle gentilmente un bicchiere d’acqua, contessa?” – “Preferisce una Moka?

Si fermano nuovamente sul quadro più importante: “Bello vero?

Difficile non dire bello a ciò che è oggettivamente bello. Il bello è oggettivamente bello. “Vuole lo zucchero?” “No, grazie mille contessa”. L’onesto gallerista si avvicina nella penombra davanti al quadro. Lo tocca con la punta di un dito. Era carta. Una carta patinata con finitura opaca. Stampato ad altissima definizione. Un poster leggermente bagnato, probabilmente con dell’albume d’uovo. Si era camuffato da tempo davanti alla cecità della contessa. Non c’era colpa, non c’era bisogno di dichiararlo. La mente vede ciò che vuole vedere, talvolta. Si allungano per un caffè. Alcuni grazie inchinati alla contessa, nessuna zolletta, una tazzina ora vuota, ma ancora così bella. Nessuno dice più una parola. Spesso nemmeno l’arte, talvolta tutti noi.

Il silenzio è spesso un risveglio per ogni investimento.

Non tenere chiuso il pensiero quando vedrai te stesso intravisto allo specchio. Non smettere di passeggiare per tutti i corridoi.

L’arte ha bisogno, comunque, di ciò che lo spettatore osserva.

Domenico Remps, Cabinet of Curiosities, 1690, Museo dell’Opificio delle Pietre Dure, Firenze, Italia

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