Negli Stati Uniti, artisti, architetti, educatori e designers si sono mossi affinché il nome dell’architetto americano Philip Johnson, morto nel 2005, venga rimosso dalle istituzioni pubbliche, tra cui il MoMa di New York, a causa del suo passato filo-nazista.
Dalle stelle alle stalle. Uno dei più grandi architetti del XXI secolo rischia ora di essere cancellato, per lo meno dalle istituzioni educative e culturali che portano il suo nome. Philip Johnson è celebre per essere stato divulgatore e rappresentante di una nuova visione moderna di architettura. Nel 1932, al Museum of Modern Art di New York – lo stesso a cui oggi si chiede di cancellarne il nome – organizzò una mostra attraverso la quale introdusse agli americani i lavori di Mies van der Rohe, Walter Gropius e di Le Corbusier, che Johnson individuava come quelli dello Stile Internazionale.
Tuttavia, la violenza degli anni trenta del Novecento e le nuove ideologie condussero il creatore della celebre Glass House – simbolo dell’architettura modernista nel Connecticut – lontano dai suoi progetti architettonici per avvicinarlo invece alla politica, quella razzista dell’estrema destra. Già in gioventù acclamava ideologie razziste e la supremazia dei bianchi e delle loro posizioni. Inoltre, è noto per aver scritto su un giornale antisemita e per aver tentato di fondare il suo partito fascista personale in Louisiana.
Nonostante egli abbia cercato negli anni appena successivi alla guerra di prendere le distanze dalle ideologie naziste, fino a poco prima sostenute a voce alta, oggi un gruppo di trenta persone, tra accademici, artisti e architetti, cerca di porre luce sullo sgradevole passato ideologico del celebre architetto. Essi chiedono che venga rimosso il nome di Philip Jhonson da spazi pubblici e istituzioni, poiché la sua presenza potrebbe suggerire ch’egli sia modello da seguire per curatori, amministratori e studenti. Si tratta di cancellarne il nome, non la memoria, di cui infatti continua ad occuparsene l’archivio dell’architetto.
Qui la lettera completa, pubblicata il 27 novembre 2020, a cui il MoMa pochi giorni fa ha risposto affermando di considerare seriamente la questione e di iniziare un’approfondita ricerca, a caccia di maggiori informazioni.