Di Pietrantonio propone un articolato excursus sulla spesso controversa idea di censura fra storia e contemporaneità
Un nostro articolo pubblicato nelle scorse settimane prendeva spunto dalla lista “Power 100” dei soggetti più influenti nel mondo dell’arte nel 2020, pubblicata dalla rivista ArtReview, per proporre alcune riflessioni sulla deriva “sociologica” della creatività contemporanea. Sul tema è poi intervenuto Marco Tonelli, storico e critico d’arte, direttore artistico del museo di Palazzo Collicola a Spoleto. E ancora Andrea Bruciati, direttore di Villa Adriana e Villa d’Este di Tivoli, l’artista Bruno Ceccobelli, il critico e curatore Daniele Capra. Ora la parola passa a Giacinto Di Pietrantonio, critico, curatore, saggista. Docente di Storia dell’Arte Contemporanea e Storia e Teoria della Rappresentazione all’Accademia di Belle Arti di Brera. Oltre che una miriade di altre cose, fra cui la direzione della Gamec di Bergamo. Che approfondisce da par suo la prima posizione nella lista, andata al movimento Black Lives Matter…
Mi si chiede di intervenire nel dibattito relativo alla recrudescenza censoria tornata alla ribalta a seguito dei recenti fatti che coinvolge il giusto movimento del Black Lives Matter. Invito che accetto di buon grado anche se non riesco a circoscrivere questo antico problema solo al discorso etnico-razziale recente. Infatti, è da almeno 6 anni che all’Accademia di Brera, dove insegno Storia dell’Arte Contemporanea, ho impostato il mio corso sulla questione della censura. Con un programma intitolato “Peccato di Novità”.
Il perché di questo titolo risale ad uno dei momenti salienti della storia della censura, o del divieto, Il Concilio di Trento, 1545-1563. In questo vennero promulgate una serie di direttive per contrastare forme espressive non allineate alla rappresentazione tradizionale dei dogmi della religione cristiano-cattolica. Tra queste, quella rivolta alle arti fu chiamata “Peccato di Novità”, per contrastare la Riforma Luterana. Il corso non tratta solo dell’arte venuta immediatamente dopo il Concilio. Tipo le braghe dipinte nel 1564 da Daniele Da Volterra su ordine di Papa Pio IV sopra i nudi del Giudizio Universale di Michelangelo, 1535-1541. Da un lato avanza fino ai giorni nostri, dall’altro indietreggia di millenni a cercare forme di censura e/o di iconoclastia.
Convinto – già da studente delle medie superiori – con Marcuse, contro Platone, che l’immaginazione al potere ha una sua ragion d’essere e che per questo l’arte ha una necessità che ci parla di libertà d’espressione come metafora della libertà umana, mi ha fatto in parallelo tenere sempre presente l’altro slogan sessantottino: VIETATO VIETARE. Sono desideri, utopie che hanno purtroppo trovato, soprattutto a partire dagli anni ottanta, molti detrattori revisionisti in ogni latitudine.
Non nego che il programma del mio corso, “Peccato di Novità”, nascendo intorno al 2014, sia stato influenzato anche dall’attivismo terrorista dell’ISIS che allora annoverava tra le sue pratiche pure la distruzione di opere d’arte dell’antichità. Per cercare di fare tabula rasa di un’eredità non islamica integralista, ma più verosimilmente per vendere reperti allo scopo di finanziarsi.
È ovvio che qui si sta parlando di qualcosa che va al di là dell’estetica, per usare l’arte non come veicolo della libertà, ma per l’esercizio del potere. Come sottolinea lo scrittore nigeriano Wole Soyinka, Nobel per la letteratura nel 1986, nel suo recente Al di là dell’estetica, edito da Jaca Book, 2020. In cui affronta le diverse modalità palesi e occulte messe in atto dai fondamentalisti cristiani e islamici in Africa contro la cultura originaria Yoruba-Orisa dell’autore, ma anche centro poetico della teoria e pratica più ampia della “Negritudine”. Anche per questo sono ancora più convinto che l’intolleranza non porti da nessuna parte, soprattutto nella cultura.
Capisco che le persone o interi gruppi sociali ed etnici possano essere giustamente esasperate dal comportamento di altre persone ed etnie, ancor più se queste condannabili pratiche sono perpetuate per secoli. Ma non credo che si risolvano imitando le gesta di chi li ha usati contro.
So bene come la rabbia al momento possa portare a distruzioni di tante cose e persone, comprese cose artistiche o ritenute tali. E che ciò accade da secoli. Ma credo che la cultura debba servire a unire le differenze, non ad allargarle più di quello che già sono. D’altra parte l’arte è da sempre, in varie modalità, bottino di guerra. In relazione a ciò assistiamo a casi di intolleranza crescente, non ultimo quello della mostra cancellata, poi rinviata, di Philip Guston, perché ci sono opere che contengono critiche razziali contro il Ku Klux Klan e in quanto non c’era nel gruppo dei curatori un curatore nero, e via discorrendo.
Questo non riguarda solo l’arte, ma la cultura in generale: e a tale proposito vorrei citare ad esempio il preventivo disaccordo di Spike Lee contro Quentin Tarantino, allorché, quest’ultimo, si accingeva a girare Django Unchained. Dichiarando in un’intervista del 22 dicembre 2012, rilasciata a “Wibe”: “La schiavitù americana non è una tematica da spaghetti western alla Sergio Leone. Fu un olocausto. I miei antenati sono schiavi. Rubati dall’Africa. Io farò loro onore… Non posso parlare del film perché non andrò a vederlo, tutto quel che posso dire è che vedere quel film è un atto irrispettoso verso i miei antenati”.
Mah! La questione razziale è per Lee e per chi la pensa come lui una questione non solo di modi, ma anche di chi li mette in atto. Nel senso che il bianco Tarantino non può occuparsi di questioni dei neri, perché sia lui che i suoi antenati bianchi non le hanno vissuto sulla propria pelle. Tuttavia Tarantino fece spallucce e realizzò uno dei suoi capolavori.
Insomma, sarebbe come chiedere a Dante di morire e risorgere tre volte andando all’Inferno, Purgatorio e Paradiso, per poter poi scrivere la Divina Commedia. Secondo alcuni se non sei o fai con il tuo essere esperienza diretta, non puoi fare certe opere, occuparti di certe questioni. Sempre restando nel cinema e spostando la questione dalla razza al gender, è ciò che è accaduto nel 2020 a Viggo Mortensen per suo film Falling. In questo caso la comunità LGBTQ contestava al regista e attore Mortensen la possibilità di interpretare un omosessuale essendo lui etero. L’attore rispose – oltre che con il film – che in questo caso il problema non è quello del gender. E che i suoi detrattori non potevano sapere se lui fosse o meno omosessuale.
Ora a mio avviso da che mondo è mondo un attore o un’attrice è tale perché sa interpretare tanti ruoli; ed è più bravo se pur non avendo vissuto certe situazioni, riesce a rendersi credibile. Come, ad esempio, Dustin Hoffman, candidato e vincitore di Oscar, interpretando ruoli diversi senza mai essere donna, Tootsie, 1983, o autistico, Rain man, 1989.
Ma tornando all’arte visiva, vorrei ricordare la questione relativa all’opera Open Casket, di Dana Schutz. Che, esposta nel 2016 in una collettiva a Berlino, passò praticamente inosservata. Mentre l’anno dopo, mostrata alla Whitney Biennial, venne fortemente contestata da attivisti artisti e intellettuali afroamericani e non solo. Open Casket riguarda l’uccisione da parte di bianchi del bambino afroamericano Emmett Till avvenuta nel 1955. Nei confronti di questo quadro fu scatenato l’inferno: a partire dalla scrittrice attivista afroamericana Hannah Black, che dichiarò, tra l’altro, anche se “l’intenzione è di presentare la colpa dei bianchi, tale colpa non è correttamente rappresentata dal quadro di un ragazzo Nero morto dipinto da un artista bianco”. Spingendosi a chiedere che il quadro venisse distrutto, in quanto il giudizio sull’opera deve essere prima di tutto di tipo identitario.
Mah! Tuttavia, anni prima, lo scrittore attivista afroamericano James Baldwin chiedeva a tutti di intervenire sui temi del razzismo, perché tutti in un modo o nell’altro responsabili. Al contrario, nel dibattito su Open Casket, la storica dell’arte Aruna D’Souza in “The Paris Review” del 22 maggio 2018 ricordava che quanti difendono il diritto di Schutz di dipingere quello che le pare e piace sono gli stessi che firmano una petizione affinché il Guggenheim tolga un video di una lotta tra cani in una mostra sull’arte. Da qui il commento sprezzante dell’artista Pastiche Lumumba, per il quale negli Stati Uniti ci si preoccupa più del destino dei cani che del black people.
Dopo tutto questo mi sento di condividere ciò che disse in “Hyperallergic” il 27 marzo 2017 l’artista afroamericocubana Coco Fusco: “C’è una tensione profondamente puritana e anti-intellettuale nella cultura americana che si esprime anteponendo il giudizio morale alla comprensione estetica. Prenderne atto non equivale a difendere la whiteness, come ha suggerito la critica Aruna D’Souza; è una difesa delle libertà civili e un appello alla civiltà. Trovo allarmante e del tutto avventato chiedere la censura e la distruzione di un’opera d’arte. Poco importa quale sia il suo contenuto o chi l’abbia realizzata. Ci può capitare, in quanto artisti ed esseri umani, d’imbatterci in opere d’arte che non ci piacciono e troviamo offensive. Possiamo considerarle come indicatori di un privilegio razziale, di genere e di classe – a me capita spesso di farlo. Ma presumere che gli appelli alla censura e alla distruzione costituiscano una risposta legittima all’ingiustizia percepita ci porta su un sentiero molto buio. Hannah Black e compagnia si stanno mettendo dalla parte sbagliata della storia, a fianco dei […] fondamentalisti religiosi che vietano le opere d’arte in nome del loro dio”.
Tutto questo ed altro avveniva mentre al piano superiore del Whitney Museum, la collezione permanente ospitava l’opera dell’artista bianco Erich Fischl A Visit To / A Visit From / The Island, 1983. Un quadro con due scene: in quella di sinistra è rappresentata una scena di tempo libero di bianchi su una spiaggia. Mentre in quella di destra in gruppo di neri che sbarcano come migranti, e alcuni sono a terra morti. Un’opera contro cui nessuno ha detto nulla: ma se ci si mettesse dal lato dei fondamentalisti dovremmo ipotizzare che Fischl avrebbe dovuto dipingere solo la parte di sinistra. Mentre noi siamo dal lato del VIETATO VIETARE, l’unico modo per far sì che l’immaginazione vada al potere. Anche solo del potere dell’umanità dell’arte…
Giacinto Di Pietrantonio
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