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Bruno Ceccobelli. L’Arte come critica Sociale

Bruno Ceccobelli e Barbara Rose, Caserta 2018 Bruno Ceccobelli e Barbara Rose, Caserta 2018
Bruno Ceccobelli e Barbara Rose, Caserta 2018
Bruno Ceccobelli e Barbara Rose, Caserta 2018

Qual è lo spazio dell’Arte nel mondo oggi? Per l’artista Bruno Ceccobelli “l’arte non deve mai servire per fare più soldi, ma per essere più umani, più divini, cioè più illuminati”

C’è bisogno d’Arte per non morire di Realtà”. Queste parole della poetessa diciottenne Marika, attivissima sui social, introducono efficacemente a questo “trattato” donatoci dall’artista Bruno Ceccobelli. Una profonda analisi – e auto-analisi – delle dinamiche attuali dell’universo artistico con un mondo al centro di fortissimi cambiamenti, catalizzati dalla contingenza della pandemia che porta in superficie valori e giudizi spesso accantonati. Temi da tempo al centro della ricerca dell’economista e filosofo francese Serge Latouche, che li inquadra nel concetto di “Decrescita Estetica”. E che Ceccobelli attualizza e per certi versi universalizza, fra bellezza e giustizia, Dio e il Potere, fede e gusto. Con qualche imperdibile aneddoto autobiografico…

Nel 2020 si è sparsa la nuova peste del Covid 19, ancora in corso. È caduto il Giudizio Divino sulla scienza. Se prima di Esso io ero scettico sul pensiero “razionale”, diciamo al cinquanta percento, ora la mia fiducia per la tecnoscienza è capitolata in un rapporto matematico uguale a quello che noi riusciamo ad osservare nell’Universo della “materia ordinaria”, rispetto alle “energie e materie oscure”, cioè del 4,9 per cento. Dopo questa pandemia catastrofica, c’è in giro una psicosi medica-politica che ha disseminato incertezza, depressione e fame su tutto il pianeta, ma il mondo che verrà che volto avrà?

 

Le Tentazioni di sant'Antonio di Hieronymus Bosch
Le Tentazioni di sant’Antonio di Hieronymus Bosch

Immaginiamo se tutto il mondo diventasse un capolavoro, un’immensa Opera d’Arte, un governo dell’Arte, uno Stato di Bellezza… A questo proposito voglio citare due frasi di una grande critica d’arte americana che ci ha lasciati la notte di Natale del 2020, Barbara Rose. In uno scritto sui problemi della critica, nel 1968 scriveva: “…così la sublimazione delle questioni politiche all’interno di un contesto estetico rende possibile ignorare (o addirittura invocare) il contenuto politico dell’arte…”. E un altro passaggio per me fondamentale: “…è vero naturalmente che l’arte ha già usurpato la religione come rifugio dello spirituale. Ora deve sussumere anche l’etica e la politica? Anche se fosse possibile, sarebbe desiderabile?”.

Come amante del pensiero Neoplatonico sono convinto che si possano facilmente togliere quei punti interrogativi di Barbara. E sono altresì convinto che si possa cambiare la società radicalmente attraverso la vera comprensione della dimensione dell’Arte. Naturalmente è una guerra di fiducia, parlare con i benpensanti della cultura e dell’arte come di una cosa seria, rispetto ai problemi socio-economici. Di fatto, però, già nell’antichità, il sommo filosofo Platone con la Kalokagathia ci svelò un segreto. Che la tradizione cristiana, in perfetta continuità difese con la “via Pulchritudinis” che poi si vitalizzò con la Ildegardiana veriditas. Riaffermando nei tempi quello che per me è, appunto, un paradigma celestiale, della Aisthesis Occidentale: “il bello corrisponde al bene e al giusto”.

Ecco, la mia vita è stata soggiogata e votata a questo fascinoso ideale e ne ho scavato, credo, il senso profondo, trasformandomi. Il bello non sopporta il brutto, così come il bene ripudia il male. Risultato: il giusto marchia l’imparziale, e questa è l’armonia che si ritrova nell’uno che non sopporta il due. Ora, guardiamoci intorno e cerchiamo di applicare questo poetico e saggio stratagemma filosofico aprioristico applicandolo a quello che notiamo: ingiustizie sociali si dispiegano fino alle brutture periferiche, dalle confusioni politiche si arriva agli inquinamenti ambientali. E tutto questo al di là di ogni limite, ecco, se vedete questo, vuol dire che viviamo in una società fraudolenta e malsana, violenta e corrotta, ma soprattutto Brutta, miserabile.

Intendiamoci, non credo a quello che vedo, né alle forme, perché tutto è Maja e tutto cangia e l’entropia è evidente ovunque, allora senza “veste”, credo nella trasparenza: sento e scrivo con il cuore e se scrivo del brutto, indico solo quel brutto intimo che patisco perché è offesa a D’io.

 

L’Amor Sacro e Amor Profano di Tiziano Galleria Borghese
L’Amor Sacro e Amor Profano di Tiziano

Il nostro Presidente del Consiglio, nel discorso di fine anno, ha affermato – sovrappensiero, presumo – che il governo decide fino ad un certo punto e poi lasceranno il destino della nazione in mano agli scienziati… ah bene! Ma se gli scienziati provengono da una società brutta e sono, per caso, al servizio delle industrie multinazionali… allora saremo tutti “imbruttiti”. In questo cataclisma pandemico i virologi hanno dimostrato il peggio di loro, non solo per avere pareri molto discordanti e vanitosi, ma per le risposte evasive e rappezzate sugli effetti futuri dei vaccini. Eppure abbiamo abdicato in loro favore.

Pieter Bruegel il Vecchio, Parabola dei ciechi, 1568
Pieter Bruegel il Vecchio, Parabola dei ciechi, 1568

L’arte abita una dimensione altera, parallela rispetto alla società. Infatti molto spesso si dice che l’artista abbia la testa fra le nuvole, sia distratto-astratto, solitario e mediti nel silenzio, che abiti la sua follia e ricerchi la sua santità. Per un pubblico questa diversità è un’anomalia sociale, rende subito l’artista un fuorilegge, un disadattato in preda ai paradisi artificiali. E se si tratta di un amico, lo si considera bonariamente come un povero scemo, un poco di buono. Oppure se è un tuo fratello, la pecora nera della famiglia o lo sfortunato. Difficoltà ancora maggiori per un’artista donna.

Nel 1983 ero a New York, alla mostra di Jannis Kuonellis alla Galleria Ileana Sonnabend; la sera dell’inaugurazione ci fu una cena di gala, con il gallerista Salvatore Ala, il quale mi aveva già esposto a N.Y.. Fummo invitati per festeggiare Jannis, a quella cena doveva arrivare anche il celebre gallerista Leo Castelli, il deus ex machina dell’establishment dell’arte internazionale. Leo si fece attendere dai commensali e arrivò per ultimo, sorridente, come una Star, io ero al settimo cielo… perché tutti tentavano di avvicinarlo informalmente…e quella sembrava essere l’occasione opportuna anche per me, una festa per una mostra di un grande artista e in più si parlava italiano.

Al desco c’erano Kounellis e Michelle, Ileana (ex moglie di Leo) e suo marito Michael, Antonio loro figlio adottivo e altre 4 persone che non ricordo chi fossero, più Salvatore e me. Quando arrivò Leo salutò per ordine d’importanza. Si sedette a capotavola e volle sapere anche i nomi dei commensali che non conosceva, allora fece, con convenevoli, il giro della tavola e quando stava per arrivare il mio turno, ed ero seduto a due posti a sinistra vicino a lui, preparai mentalmente un piccolo discorso, ma misteriosamente saltò il mio ipotetico benvenuto e non mi considerò. Poi subito iniziò a brindare, alzò il calice verso Kounellis e se ne uscì con questa frase, che per me fu esemplare del suo potere di mercante e del ruolo sociale dell’artista: “Allora Jannis, che ordiniamo, bistecche di pappagallo?”. Non tutti ridacchiarono… imbarazzo di Jannis e Michelle.

 

Jannis Kounellis, Pappagallo, 1967
Jannis Kounellis, Pappagallo, 1967

In quella serata rimasi malissimo, perché, soprattutto, ero già conosciuto dagli ospiti… e perché era come se il Re Giove, disceso dall’Olimpo su questa terra, assorto da altri interessi… non avesse avuto nessun istante per considerare un giovane artista di 31 anni, inesperto di savoir faire e di public relation. E mi sentii un intruso, e rinunciai a presentarmi di fronte a Giove non solo quella sera, ma per sempre… e incominciai a far tesoro di quello sbandamento.

Da quel momento riflettei molto sul ruolo che dovesse assumere la mia carriera artistica nella società capitalistica, e a quale gioco non volessi più giocare. Così cominciai ad interessarmi alla trasparenza, mi attaccai ancor più ai concetti rosacrociani, a quella fede che avevo avuto già da adolescente. Ci vollero altri nove anni prima che riuscissi a lasciare quel Sistema economico anglofilo e a tornare al mio paesaggio natio, Todi, che avevo lasciato a 13 anni per Roma, la caput mundi. L’Arte che, da allora in poi, mi rischiarò, non ammetteva più carriere né successi mondani, riiniziai con una nuova comprensione più “luminosa” della vita.

L’artista è l’uomo di fuoco (e, se qualcuno pensasse che non rispetto i diritti di genere, allora vi dico che sto parlando dell’uomo come metafora dello Spirito). Dicevamo l’artista è l’uomo di fuoco che distrugge i “linguaggi” e ne forgia sempre di nuovi. Con linguaggi intendo: intuizioni individuali, immagini espressive comprendenti visioni, messaggi e concetti significanti rivolti, con uno sguardo intelligibile, al bello. Nel confronto tra arte e realtà sociale, l’arte è una forma di resistenza lirica al mondo intellettuale formalista, senza un animo e quindi senza una ragione. Pensare attraverso l’arte è “Alta Nichilitate” (Jacopone); dipingere è come descrivere paragrammaticamente per successive dimostrazioni di paradossi, come per la Teologia Negativa o come per la Patafisica, a un motto di spirito che di per sé libera dalle categorie intellettuali e sociali… da quegli appigli di un potere qualsiasi.

Kazimir Malevich, Quadrato nero, 1923 circa Olio su tela, 106 x 106 cm ©State Russian Museum, St. Petersburg
Kazimir Malevich, Quadrato nero, 1923 circa Olio su tela, 106 x 106 cm ©State Russian Museum, St. Petersburg

Fare arte è l’unico lavoro erotico-eroico improduttivo, ma che, allo stesso momento, ti riempie, divora, è un calore, un colore, un’ossessiva manipolazione che continua in tutte le ore, di giorno, di notte, in quelle feriali e in quelle festive. Di vacanza e di malattia, un’esplorazione in fondo al pozzo della nostra apparente coscienza. Il gusto personale non c’entra niente con la vera ricerca artistica, perché non si tratta di giudicare le forme manufatte, ma di misurare l’umanità dell’artefice nel continuum del suo consacrare. Dunque la riproduzione oggettiva del manufatto estetico è solo funzionale, è una scoria o una “bugia”, come diceva Picasso, per raggiungere la verità…

 

Madrid
Guernica. Pablo Picasso, 1937

In questo senso l’arte è una rivoluzione continua, che non ammette rivoluzioni sociali o mercati globali. L’unica vera rivoluzione rimane esclusivamente quella “personale”, quella della trasparenza interiore, dell’alchimia del color bellezza, dell’amore. La caratteristica del sociale è che se ne può parlare solo sociologicamente, cioè per numeri e concetti anonimi, calcoli senza un volto. L’arte non parla del mondo o del sociale, ma cerca di stare nel mondo dandogli entusiasmo e bellezza, che secondo il canone estetico sono “armonia” e “comunione” di intenti e di capitali. L’arte vera detiene la virtù del “surreale” per il suo essere sintesi, evidenza e pertinenza; forse la vita vera sta solo dentro al sogno, all’animo.

 

Bruno Ceccobelli, Giardini d'inverno, 2020
Bruno Ceccobelli, Giardini d’inverno, 2020

L’arte è una visione filosofica-ontologica-olistica fatta per immagini. Ancor di più, come diceva il mio maestro Toti Scialoja, una ricerca gnoseologica, una weltanschauung peculiare per ogni singolo artefice. E sono certo che possa essere letta come una scrittura metafisica metalinguistica, cioè non letterale.

 

Toti Scialoja, The Unicorn in captivity 1, 1963, Galleria Open Art, Prato
Toti Scialoja, The Unicorn in captivity 1, 1963, Galleria Open Art, Prato

Il sentimento che si fa immagine è la “Contemplazione della Bellezza”, così come definita da Benedetto Croce nella sua “Estetica” (1902). Vale a dire comprensione logica intuitiva superiore alla logica scientifica, essa sublima l’essere all’autocoscienza. La bellezza parla da sola come la voce dello spirito: “La bellezza salverà il mondo”. Sì, la “bellezza” salverà, ma solo se stessa. Allora fatevi belli dentro, consacratevi come un’Opera d’Arte. L’arte è madre della religione e non figlia; dai primitivi sciamani, agli artisti rinascimentali all’arte di oggi, l’arte è sempre stata sacra e per questo sempre contemporanea allo spirito.

 

Michelangelo, Pietà Vaticana
Michelangelo, Pietà Vaticana

L’arte come denuncia sociale sa ascoltare gli animi di tutti… è una “luce verde” sul mondo, la Speranza. L’arte è il dono della meraviglia; gli artisti con una sintassi luministica possono esorcizzare soprattutto il denaro, meretricio corruttivo. Meglio scambiare doni, contenuti d’amore, gioie naturali. In un proverbio orientale si dice: “Quello che noi siamo è quel che doniamo, se invece tratteniamo tutto per noi, quello non lo possediamo, ma ci possederà”. Una pittura come preghiera… può ben rappresentare la giusta pratica per esorcizzare una realtà che non possiamo rappresentare nella sua vera veste, perché troppo nemica, troppo invadente, coercitiva fino all’alienazione.

Il filosofo Armando Rigobello, nell’ introduzione del libro Pensiero e Poesia di Martin Heidegger, affermava: “L’arte non è creare, ma piuttosto un accogliere l’illuminazione dell’essere”. Insomma, l’arte non deve mai servire per fare più soldi, ma per essere più umani, più divini, cioè più illuminati. In realtà ricchi dentro si nasce, ma lo si deve scoprire con una incessante pratica.

 

Giorgio De Chirico, Interno metafisico con sole spento, 1971
Giorgio De Chirico, Interno metafisico con sole spento, 1971

In questa società merceologica l’arte è bastarda: rappresentata solo da un’arte della trasgressione e dello sconcerto, degli shock emotivi per quella futilità gratuita figlia del farsi notare; abbiamo così quell’arte del prodotto preconfezionato per sentimenti esauriti. Avrete notato che più volte ho insistito nel mio scritto a citare il vero artista e la vera arte, il perché: ecco, nel fiume della vita, pochi riescono a galleggiare ma il vero artista si riconosce perché va a fondo e non ha interesse a stare in “superficie”. Quindi, se volete fare un’esperienza vera dell’arte, dovrete perdervi: “Signore abbissa me in amore” (Jacopone da Todi 1236-1306 laude LXXXIX).

Bruno Ceccobelli

http://www.brunoceccobelli.com/

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