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Gian Maria Tosatti. La classifica di ArtReview e il processo alle intenzioni

Gian Maria Tosatti - foto Severina Venckute Gian Maria Tosatti - foto Severina Venckute
Gian Maria Tosatti - foto Severina Venckute
Gian Maria Tosatti – foto Severina Venckute

“Una omogeneizzazione disciplinare che mescola al suo interno ogni carattere senza distinguere fra un pensiero e un’azione, tra una figura e una parola”, scrive Tosatti

Un nostro articolo pubblicato nelle scorse settimane prendeva spunto dalla lista “Power 100” dei soggetti più influenti nel mondo dell’arte nel 2020, pubblicata dalla rivista ArtReview, per proporre alcune riflessioni sulla deriva “sociologica” della creatività contemporanea. Sul tema è poi intervenuto Marco Tonelli, storico e critico d’arte, direttore artistico del museo di Palazzo Collicola a Spoleto. E ancora Andrea Bruciati, direttore di Villa Adriana e Villa d’Este di Tivoli, l’artista Bruno Ceccobelli, il critico e curatore Daniele Capra, Giacinto Di Pietrantonio – critico, curatore, saggistal’artista – acuto osservatore dei fenomeni socio-artistici – Nicola Verlato, ancora un artista, Nicola Genovese. Ora la parola passa ad un altro artista, Gian Maria Tosatti

Recentemente ho letto una riflessione di Daniele Capra, sulle pagine di questa rivista. Era un argomentare tanto giusto da sembrare quasi scontato. Eppure, se riconosciamo al critico la ragione di ribadire tali pensieri oggi, significa che, come comunità culturale, siamo ancora lontani anche dal recepimento dell’ovvio. Ovvia è la perplessità di Capra nei confronti di un’arte che veda quale metro di giudizio la sua aderenza ad una causa, piuttosto che la sua qualità estetica (laddove per estetica si intenda il complesso intreccio fra realtà, elementi di linguaggio, spine di contenuto e recettori esperienziali).

La causa scatenante è stata la classifica di ArtReview, tutta votata alle condivisibili istanze razziali che hanno infiammato il mondo anglosassone post-coloniale in questi mesi. Nelle ore successive alla pubblicazione dell’articolo è apparsa, poi, anche la classifica di Hyperallergic che batteva sugli stessi tasti. Ma il fatto che tali notizie siano d’attualità oggi, non significa che il fenomeno non abbia radici più profonde. E una perduranza che va avanti da tempo.

In questo ultimo decennio abbiamo visto con particolare frequenza l’emergere di progetti e percorsi per i quali il risultato visivo passava decisamente in secondo piano rispetto al portato intenzionale. Tra gli anni ’60 e ’70 un fenomeno simile – seppur con le dovute profonde differenze – portò all’emersione di una corrente artistica oggi storicizzata con il nome di arte concettuale. Ma appunto, allora, tale movimento intese prendere una posizione nettamente dialettica rispetto al resto, ovverosia rispetto al regno della forma, del colore o dell’immagine. Partendo da una profonda consapevolezza del ruolo decisivo di questi elementi nell’articolazione linguistica dell’arte. E, oltretutto, la loro formulazione contenutistica non procedeva al traino della cronaca, ma attivava simboli da luoghi fino ad allora artisticamente inerti.

 

Gian Maria Tosatti, Моєсерцепусте,якдзеркало-одеськийепізод (Il mio cuore è vuoto come uno specchio – Episodio di Odessa)
Gian Maria Tosatti, Моєсерцепусте,якдзеркало-одеськийепізод (Il mio cuore è vuoto come uno specchio – Episodio di Odessa)

Oggi, invece, quest’attitudine creativa responsabile di un’arte che ironicamente potremmo definire intenzionale, scivola in una omogeneizzazione disciplinare che mescola al suo interno ogni carattere senza distinguere fra un pensiero e un’azione, tra una figura e una parola. È una prospettiva che, di primo acchito, potrebbe apparire interessante, vagamente sintetica, vagamente sinestetica. La realtà, però, è che essa produce una semplificazione linguistica impoverente. Cultura visiva e cultura filosofica, infatti sono elementi complementari, ma non sovrapponibili. Se uno di questi due linguaggi (o altri che qui non abbiamo menzionato) venisse a coincidere con l’altro, semplicemente ci troveremmo a schiacciare la gamma delle possibilità della nostra percezione linguistica solo su alcune soluzioni che non possono coprire l’intero spettro dell’esperienza.

Dunque, che cosa ci dice oggi una classifica dell’arte dominata da figure di pensatori, professori, filosofi o addirittura movimenti popolari, fatti di persone che non hanno mai preso un pennello in mano o una matita se non per scrivere un numero di telefono? Ci dice che lo spettro del nostro linguaggio, invece di espandersi nella sua intera gamma, si polarizza verso alcune dominanti. E così, appunto, si semplifica, perde articolazione, perde complessità e quindi capacità di riflettere con pienezza la realtà. Inoltre, questa contrazione avviene a scapito delle caratteristiche proprie del linguaggio dell’arte.

 

Vicente Todolí, direttore artistico dell'HangarBicocca di Milano
Vicente Todolí, direttore artistico dell’HangarBicocca di Milano

Potremmo chiosare, infatti, dicendo che quanto di peggio si possa trovare in un quadro siano le sue buone intenzioni. L’arte, infatti, a differenza della filosofia o della scienza, non procede per tesi o dimostrazioni, ma per enigmi. Talvolta, infatti, le opere migliori sono oggetti sconosciuti all’artista stesso. Oggetti che si espongono per farsi osservare e conoscere. Oggetti che non dicono niente, ma che interrogano. Ed ecco che arriviamo al vero punto della questione.

Un giorno Vicente Todolì mi disse che i grandi artisti sono quelli che non ti dicono mai da che parte stare. Che non ti dicono mai cosa sia giusto o sbagliato. Questo ci porta a percepire come parassitarie, o peggio ancora, improprie, quelle forme di appropriazione del campo artistico da parte di correnti di pensiero che dominano altre scene e altri dibattiti. Per quanto corrette e condivisibili sul piano dell’etica e del ragionamento, certe idee finiscono per risultare ingombranti, goffe e tagliate male rispetto al linguaggio visivo, perché un’opera non è una predica. Un’opera non ha alcuna responsabilità di educare. Un’opera, di contro serve a precipitarci in una realtà percettiva che ci colga impreparati a noi stessi. Le opere servono, infatti, a metterci in crisi per farci pensare, non a consegnarci il pensiero pedagogico di qualcun altro.

 

Piet Mondrian, Composition with Blue and Yellow, Philadelphia Museum of Art
Piet Mondrian, Composition with Blue and Yellow, Philadelphia Museum of Art

Penso a questo ogni volta che passo di fronte ad un piccolo quadro di Piet Mondrian, conservato al Philadelphia Museum of Art. Non uno dei suoi più famosi. Un’opera che a distanza di molti decenni continua a parlarmi con la sua verità, mentre ciò che all’epoca era considerato “giusto” o “sbagliato” è uscito dalle nostre preoccupazioni più o meno dallo stesso numero di anni che hanno visto quel quadro appeso al muro del museo.

Gian Maria Tosatti

http://www.tosatti.org/

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