Perché guardi ancora i fuochi artificiali?
Caro Amico,
l’ultima volta che ci siamo incontrati è stato proprio a Bologna, esattamente in quella stanza e durante quella mostra. Si, lo ricordi bene. Non avevo interesse per i lavori degli altri quel giorno, volevo solo vedere di persona che cosa eri tu in quel momento. Sedermi silenzioso di fronte alle tue nuove opere e scoprire dove ti aveva portato la strada. Di che cosa ti occupi oggi, nel tuo tutto.
Quando me ne andai, salutandoti solo con un cenno, lo feci perché ti aspettavo da troppo tempo e avevo ormai freddo, nonostante fossi ben coperto dal mio amorale. Uso sempre quella giacca pesante, non è così male, ancora. Me la regalò un fotografo tanti anni fa ed è più o meno da quel periodo in cui ho sentito freddo per la prima volta che non frequento più gli autori e che non visito mostre e musei
… ma alla tua esibizione non potevo proprio mancare.
Anche perché era qui vicino, in questa città, Milano, che è anche mia, ma che in realtà ha di mio ormai ben poco.
Ricordo il giorno in cui ricevetti l’invito, me lo consegnarono con la posta. Scorrendo con lo sguardo l’elenco dei nomi sul biglietto mi sono soffermato sul tuo, come se mi fossi risvegliato in quel momento. Non ho potuto fare altro che trattenere il respiro e tornare con i pensieri indietro nel tempo. A quando eravamo davvero amici.
Erano i giorni in cui una forza nascosta ci invadeva. Le tue mostre me le facevi visitare da solo, dopo l’orario di chiusura o in un momento qualunque della settimana, noi due soli. Poi partivamo per lunghe camminate tra le vie trafficate, dove era tutto uno scalpitare e bruciare di passi veloci, conversando a fondo e scomponendo ogni significato. Sostavamo in piazza con le birre economiche bevute sulla panchina, accompagnate da lunghe fumate e da parole trattenute come lacrime di cui doversi vergognare.
Ora il tempo è denso rispetto a quei giorni. Ora il tempo è la cosa che ci manca di più e allo stesso modo riempie tutto. Proprio adesso che siamo tornati piccoli e non ci sfiorano più le cose da grandi, proprio adesso che possiamo parlare con libertà di qualsiasi cosa a qualunque ora del giorno. Siamo muti di poesia e lontani dalla realtà.
A questo proposito, visto che tu non me lo chiedi e con me non ne hai mai parlato nemmeno mentre fumavamo sulla panchina, ci tengo a dirti che non hai bisogno di rendere l’onore a coloro che ti criticano di essere presi sul serio. Questi fanno i generali e non sanno vedere, non la nostra amata arte perlomeno. Hanno un binocolo e vedono attraverso quei vetri. Vedono solo un particolare del nostro immenso paesaggio.
Anche io non ho apprezzato le tue ultime pitture, perché guardarle mi ha ricordato un reggimento di soldati. Non quelli che combattono per un’idea o per la propria patria, che sempre soldati sono, ma appaiono ordinati. Mi vengono in mente i mercenari al soldo del miglior offerente, scomposti e sporchi.
Amo profondamente, invece, i tuoi vecchi i soffi e gli ancora precedenti graffi, ma non è una guerra. Non offenderti. Non lo hai mai fatto, caro amico. Anche se non ci vediamo più e non abbiamo mai toccato certi argomenti, non abbiamo mai affrontato discussioni tanto accese, è per quella relazione talmente rara, quel nobile rapporto che esiste tra gli esseri umani, che anche gli animali conoscono, la solidarietà: l’amicizia, che voglio consigliarti di occupare i tuoi pensieri nella ricerca di parole che non sono del mondo degli altri. Proprio perché ti voglio bene e ho amato il tuo lavoro te lo domando. Ricordati, se mai vorrai rispondere, che dovrai darmi quello di cui ho bisogno e non solo quello che chiedo.
Accogli felicemente quanto scrivo e donami con leggerezza ciò che vorrei tanto ricevere da te. Siamo entrambi turbati da avvenimenti che intorno a noi ci fanno sentire a volte inermi e sbagliati, marchiati o non adatti.
Perché guardi ancora i fuochi artificiali?
Ti prego, perché insisti?
Hai la matita e il pennello, lo so, la lingua e il coltello li avevi allora e forse oggi ti è rimasto solo il coltello? Oltre al marchio indelebile, ovvio.
Tanti attorno a te hai veduto naufragare? Erano tutti con un dubbio in comune? Tanti fiori sono stati calpestati e tanti frutti caduti in quale dove? Ne hai colti alcuni di questi frutti? E coloro i quali al posto del coltello possedevano la spada, sono affondati sotto il peso di quella lama?
Vorresti facessimo le stelle? Mi chiedi ancora dopo tutto …
Fantasticavamo fino a che le idee non arrivavano da sole, senza doverle rincorrere ansimando. Poi tu dicevi che l’arte dell’uomo, come l’uomo stesso, non deve pretendere di essere eterna.
Tu vai ancora?
Quando il mare è calmo e il cielo è buio, a quell’ora in cui la meta dell’orizzonte non si distingue dal cielo.
Andrai ancora lì?
Dove le stelle raddoppiano e si avvicinano, restando comunque abbastanza lontane perché tu possa coglierle. O adesso le guardi dagli scogli che una volta erano il trampolino per i nostri salti.
Ci imbarcheremo ancora tra le stesse onde, solcheremo anche su due legni diversi la stessa acqua.
Fai del corpo stesso uno scafo, ricordalo sempre quando sarai lì in mezzo. Traghetta e non avere paura.
Il confine del mare è sempre la terra e il confine della terra è il mare.
Con quest’ultimo pensiero ti saluto. Attenderò con impazienza le tue parole, se saprai quali usare.
Più volte ho pensato di mandarti una cartolina con scritto questo:
Provi ancora a realizzare quell’opera adesso? Quella con un nome talmente bello da non servire la pittura? Quell’opera che compare nella mente di chi osserva, creata dalla sola lettura del titolo? “Il più bel titolo che si possa leggere”. Così lo chiamavi.
Ho sognato, alcuni mesi fa, che eravamo in Germania e camminavamo la sera nella campagna di qualche piccola città fuori moda del sud, sulla via del ritorno in Italia, io con te e il tuo cane. Dopo molta strada percorsa tra i boschi e i laghetti artificiali abbiamo compreso che il più bel titolo che si possa leggere nemmeno deve essere letto, ma ascoltato soltanto.
Conoscerlo, questo basta per creare l’immagine.
Nel sogno le parole arrivavano da lontano, così come si pronuncia la verità, a voce alta. Ma arrivavano delicate alle nostre orecchie quelle richieste, quasi sussurrate dall’inconsistenza del vento.
Poi il tuo cane scappava, forse attratto dall’istinto di raggiungere una preda lontana a noi sconosciuta. E il sogno finiva rincorrendolo al freddo fra i fossi.
G S