Henri Matisse ha tratto dall’opera d’arte un’armonia analoga a quella di una composizione musicale. Le sue ricerche in tal senso sono racchiuse in Jazz, un esperimento editoriale pubblicato a Parigi nel 1947.
Un musicista ha detto: in arte la verità, il reale, comincia quando non si capisce più nulla di ciò che si fa, di ciò che si sa e resta in voi un’energia tanto più forte quanto più è contrariata, compressa. Serve allora presentarsi tutto puro, candido, con una mente che appaia vuota…. Evidentemente bisogna avere dietro di sé tutta la propria esperienza acquisita e aver saputo conservare la freschezza dell’istinto
Quando scrive queste parole Henri Matisse (Le Cateau-Cambrésis 1869 – Nizza 1954) è un vecchio ragazzo quasi 80enne reduce da una malattia invalidante, che lo costringe su una sedia a rotelle. In questo periodo, stimolato da un raffinato editore parigino di origine greca – Stratis Eleftheriadis, noto come Tériade – l’artista compose uno dei più originali e importanti libri-oggetto del ‘900: Jazz.
Il titolo venne in mente all’editore quando vide nell’atelier di Matisse i papiers gouachès et decoupés, carte colorate e ritagliate e gli chiese di metterli insieme per comporre un libro. Quando lavorò a Jazz, non potendo dipingere con i pennelli, Matisse s’inventò un modo di “dipingere con le forbici direttamente nei colori” come uno scultore che scolpisce direttamente nella materia. Prima colorava con la tempera dai toni intensi e brillanti, poi ritagliava delle sagome di figure e forme e le assemblava su grandi tavole creando composizioni di carattere astratto. Le tavole, affiancate da frasi e pensieri scritti dall’artista con inchiostro nero e pennello, hanno un forte impatto grazie al dominio dei colori primari e alla struttura compositiva, caratterizzata da forme essenziali rese attraverso un cromatismo puro e dinamico, luminosissimo.
Jazz, pubblicato a Parigi nel 1947 in un’edizione limitata a 250 copie, prendeva spunto da un sound che assomigliava molto al modo in cui Matisse intendeva la vita. Partendo dalla scomposizione di un tema e muovendosi inconsapevolmente nella direzione dei ritmi e dei tempi sincopati del jazz, il vecchio Matisse anticipò di colpo e quasi esaurì anche il pop di poi. Di lì a poco Le caves di Saint-Germaine-de-Prés cominciarono ad essere invase da jazzisti americani e francesi, dai ritmi rotti e asimmetrici di Charlie Parker e Kenneth Clarke, dal bebop di Milton Jackson e di Thelonious Monk; l’anno dopo si sarebbe aperto il festival internazionale del jazz di Parigi mentre il pessimismo esistenzialista di Sartre cancellava ogni aspirazione all’Assoluto.
Ma del nuovo sound che faceva impazzire i ragazzini ribelli che si riunivano nelle caves parigine il vecchio Matisse sapeva ben poco, chiuso nel suo eremo di Vence, dove soggiornò cinque anni e creò le sublimi vetrate della Cappella del Rosario. Qui si divertiva a ritagliare con le forbici cartoncini colorati in disegni che sembravano sculture, montandone i pezzi, come in un cinema delle origini. Erano immagini di clowns, cavalli e cavalieri, mangiatori di spade, Pierrot, cow-boy, un circo immaginario che evocava un mondo dove l’artista deve saper dimenticare la tecnica e “conservare la freschezza dell’istinto”. Definì le sue carte ritagliate “improvvisazioni cromatiche e ritmate”, su cui avrebbe usato la propria grafia “come sfondo sonoro”, creando un circo colorato al ritmo di un jazz immaginario. Il legame intimo dell’artista con la musica avrebbe poi molto influenzato l’arte astratta americana ed europea del dopoguerra.