Kubra Khademi, una ragazzina con indosso un’armatura metallica che esagera i volumi dei seni, della pancia e dei glutei, cammina per le strade del quartiere Kote Sangi, di Kabul, per rendere visibile ad occhio umano la sua rivolta contro le vessazioni, gli abusi, i matrimoni forzati, il patriarcato
Per raccontare quanto fosse difficile essere una donna in quel luogo e in quel momento storico. Era il 26 febbraio 2015, la ragazzina è Kubra Khademi, classe 1989. Oggi colleziona residenze artistiche da Parigi a New York, ma quella prima performance, Armor, le costò quasi la vita e una fuga dall’Afghanistan.
«Avevo calcolato – racconta nelle sue interviste – che avrei camminato per dieci minuti fino a dove mi aspettava una macchina. In effetti, andai più veloce: otto minuti». Guardando le foto, è facile immaginare perché abbia affrettato il passo, colpita da sguardi di uomini di ogni età che sogghignano, fanno smorfie, la indicano. «Me l’aspettavo. Sapevo che ci sarebbero stati insulti, gesti osceni. Questo è ciò che volevo sottolineare. Ma quando ho visto quella stessa sera su tutti i social network afgani che la mia esibizione era un insulto all’Islam, ho capito che ero in pericolo di morte».
L’unica soluzione fu quindi fuggire, attraverso il Pakistan, a Parigi, dove andò a vivere prima alla Cité universitaire, e in un secondo momento all’Atelier des artistes en exil, il progetto fondato nel 2017 da Judit Depaule e Ariel Cypel proprio per sostenere gli artisti in esilio, mettendo loro disposizione spazi in cui creare e un network di rapporti per sviluppare la propria ricerca e integrarsi nel Paese ospitante. Oggi una fotografia della performance, documentata dalle riprese di Mina Rezaie e dalle immagini di Naim Karimi, dopo essere stata in mostra al Mucem di Marsiglia si trova nel suo studio di Romainville, nell’Ile-de-France.
Tra le sue esibizioni più note c’è Eve is a Seller, durante la quale l’artista vende frutta e verdura su una bancarella in un mercato coperto. A una prima occhiata potrebbe sembrare una scena comune; ma guardando meglio, arance, meloni, insalata e zucchine sono disposte in modo tale da suggerire anatomie femminile in una location non casuale: il mercato di Molenbeek, quartiere della capitale belga dove si preparavano gli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi e del 22 marzo 2016 a Bruxelles.
Ma l’artista è stata anche in Italia a fine 2019, al Teatrino di Palazzo Grassi a Venezia, in occasione di un appuntamento sulle migrazioni con ospite proprio l’Atelier des artistes. Khademi, body nero, leggins e piedi nudi, ha riproposto una performance provata per la prima volta in Pakistan: è entrata in una grande valigia, si è chiusa al suo interno e lì è rimasta per tre ore. La valigia è il bagaglio pesante che le donne devono portare con sé fin dalla nascita, il peso dell’essere donna in alcuni Paesi del mondo.
Oggi Kubra lavora anche con il suo partner, l’attore e performer Daniel Pettrow, su ritratti disegnati e prodotti dagli studi in Afghanistan. Le sue eroine si accarezzano a vicenda, mostrano la propria intimità e le scritte arabe in oro sulla pelle, sopra le parole di Djalal Al-Din Rumi, poeta costretto all’esilio dall’Afghanistan come lei per i suoi versi mistici e sensuali. Quei versi rappresentano i racconti di sua madre con le amiche quando gli uomini non c’erano: il sesso dei loro mariti, le loro capacità. Più che le loro fantasie erotiche, quelle frasi sono la vita clandestina e la libertà di quelle donne, quando nessuno le può udire.
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