Gino De Dominicis fu artista criptico e complesso, dagli eruditi riferimenti filosofici. Uno di questi sembra essere racchiuso nel dipinto Senza titolo, oggi conservato al Museo Capodimonte di Napoli. Di ispirazione platonica, l’opera presenta un contenuto dall’irriducibile mistero.
Gino De Dominicis (Ancona 1947-Roma 1998) è stato uno dei personaggi più misteriosi e affascinanti del Secondo Novecento italiano. Artista unico, dalla personalità eccentrica e riservata insieme, De Dominicis mai accettò di essere inquadrato all’interno di un preciso movimento artistico contemporaneo, né tanto meno che le sue opere venissero etichettate sotto una specifica tendenza artistica, convinto che ciascuna rappresentasse «una novità formale e un universo autonomo» (I. Tomassoni, Il caso Gino De Dominicis in Flash Art n.144, Milano 1988).
Nonostante l’avversione per ogni forma di omologazione del suo lavoro, non si può comunque affermare che l’artista marchigiano fu immune dal subire l’influenza delle novità introdotte dalle principali tendenze artistiche contemporanee, prime fra tutte l’Arte Concettuale e la Minimal Art e, a partire dagli anni Ottanta, dal movimento postmoderno. Non è un caso che lo stesso De Dominicis, tra gli anni Sessanta e Settanta, si cimentò nella realizzazione di opere sperimentali (soprattutto provocatorie istallazioni) e che, sul finire degli anni Settanta, in linea con le nuove tendenze artistiche nate in seno al movimento postmoderno, tornò a dedicarsi prevalentemente, se non esclusivamente, alla pittura e al disegno, recuperando il rapporto prezioso con una manualità messa a lungo da parte.
Per tutti gli anni Ottanta e Novanta, sino alla sua morte improvvisa nel 1998, realizzò numerose opere pittoriche di matrice prevalentemente figurativa, dove le immagini paiono sospese in uno spazio fuori dal tempo, caratterizzate da forme essenziali svuotate del proprio peso corporeo e rigorosamente bidimensionali. L’essenzialità formale è forse il tratto più interessante della pittura di De Dominicis, che attraverso immagini primordiali intende rappresentare l’essenza delle cose che costituiscono la realtà sensibile. Come nel Timeo di Platone si legge che il demiurgo (Intelligenza cosmica) ha plasmato le cose dell’universo a somiglianza delle idee calando l’unità nella molteplicità, mettendo ordine là dove regnava disordine. Allo stesso modo De Dominicis, come un artista-demiurgo, scava nel profondo della realtà derivando la varietà delle forme – che dipinge con elementi geometrici primari (forme archetipiche) – plasmando la materia dei corpi in funzione di una perfetta idealità.
Per questa via possiamo quindi sostenere che nel pensiero colto e raffinato di De Dominicis trova spazio, seppur in maniera del tutto originale, il principio platonico del calare l’unità nella molteplicità. Vediamo di chiarire il concetto aiutandoci con la tavola Senza Titolo, realizzata dall’artista poco prima di morire (tra il 1996-1997) e oggi conservata nella sezione d’arte contemporanea del Museo di Capodimonte (Napoli), sulla quale è raffigurato una sorta di dodecaedro stellato in oro sovrastato da polvere dorata. Ora, se ci soffermassimo alla prima impressione, verrebbe semplicemente da considerare il dodecaedro come un banale poliedro (solido geometrico) a dodici facce, ciascuna a forma di pentagono regolare.
Ma perché De Dominicis ha scelto proprio questo solido geometrico? E qual è il suo significato all’interno dell’opera sopra citata?
Sfortunatamente, il fatto che l’artista abbia lasciato la tavola senza titolo complica la situazione. A tal proposito, vale però la pena precisare che in questo caso, come in molti altri, non si tratta di mera dimenticanza, bensì di una scelta consapevole che risponde alla volontà dell’artista di mantenere le sue opere in una condizione di eterno presente privandole, talvolta, del titolo. Così come della data e di tutto ciò che potesse confinarle in un preciso contesto culturale e temporale, sulla base della convinzione che «per esistere veramente le cose dovrebbero essere eterne, immortali» (G. De Dominicis, Lettera sull’immortalità, Roma 10 settembre 1970). Quindi, per tentare di risolvere il rebus sul suo significato, non ci resta che tornare nuovamente a Platone, essendo il dodecaedro uno dei cinque solidi platonici regolari che il filosofo greco approfondisce nella seconda parte del Timeo.
Nel dodecaedro trova infatti applicazione il principio del calare l’unità nella molteplicità. Nel Timeo, Platone ci dice che il demiurgo ha costituito i quattro elementi fisici (corpi semplici) di fuoco, acqua, aria e terra partendo da triangoli elementari che, combinati in molteplici modi, originano una pluralità di solidi regolari, calando l’unità nella molteplicità. Per fare questa complessa operazione, il demiurgo si è però servito di due sole tipologie di triangoli: scaleno rettangolo e isoscele rettangolo. Dal triangolo scaleno rettangolo derivano i tre solidi regolari di
fuoco (tetraedro), aria (ottaedro) e acqua (icosaedro), mentre dal triangolo isoscele rettangolo scaturisce il solido che da forma alla terra (esaedro regolare).
A proposito del quinto solido geometrico regolare (dodecaedro) Platone si limita a dire che, «essendovi ancora una quinta combinazione, il Dio si servì di essa per decorare l’universo» (Platone, Timeo, 55 C). Sarà successivamente Aristotele che, riprendendo in parte quanto detto dal suo vecchio maestro, assocerà il dodecaedro al quinto elemento identificato con l’Etere. Il quinto elemento, chiamato anche Quintessenza è, secondo Aristotele, distinto dagli altri corpi semplici (terra, fuoco, acqua, aria) perché caratterizzato da un moto circolare perfetto e, soprattutto, dall’essere eterno e immutabile.
Compreso dunque che il dodecaedro simboleggia l’Etere (cosa di cui l’artista era certamente al corrente) sarebbe interessante sapere se il dodecaedro avesse per De Dominicis una valenza particolare. Sfortunatamente, date le premesse fatte, pare evidente che tale
domanda sembra destinata a rimanere senza risposta, ma forse è proprio questo ciò che rende l’opera così interessante. Un’iconografia volutamente arcana che è il frutto del pensiero di un artista sui generis che guardava il mondo dalla prospettiva privilegiata di un moderno artista-demiurgo, alchimista della materia.