Astrazioni “patafisiche” di Bruno Ceccobelli fra Montmartre di provincia, artisti fermi e società epidemiologicamente decadentista
Una pseudo arte, eseguita da artisti fessi o finti fessi, Not Original Artists (artisti ammiccanti, simpatici, ma banderuole e bastardi), che tra frizzi e lazzi, è “vista bene”. Cioè favorita e riverita dai convenzionali clamori mediatici e dalla maggioranza trash degli utenti dell’Arte Contemporanea. “Pane al pane, vino al vino, la marmellata piace ai golosi“: così parlò mio nonno Zefferino. E io aggiungo: ”e le vie dei soldi sono limitate… per gli avidi senza sorelle e fratelli visibili e invisibili”. Ma io, che sono un pesce piccolo, fuori dal coro, tipo cane sciolto, per questo randagio e battitore libero, sono anche un partigiano dell’arte forte. Guardo l’arte da una particolare prospettiva, dal basso verso alto, per quella via trascendentale, quella della mia fortuna.
Ebbene, come antipasto vi devo raccontare una favola, una favola vera: sono nato in un posto sperduto, piccino, piccino, nella campagna, nel mezzo dell’Italia. Sono nato misero, mi sono svegliato e ho capito che il mondo era grande e quello che desideravo era in altri posti. Tutte le strade portano a Roma, Roma amor, è stata un bel posto, ma poi mi sono illuminato e ho capito che quello che desideravo sarebbe stato “più grande”, in altri posti più lontani. Così ho viaggiato, ho viaggiato in fretta, in lungo e in largo, tanto che, nel 1993, un giornalista senegalese, dopo una mostra al Centro di Cultura italiana a Dakar, scrisse che ero un famoso “globetrotter dell’arte internazionale”.
Americani a Todi
Poi un giorno, a quarant’anni, sono tornato nel posto piccino, piccino dove ero nato e mi sono risvegliato. Scoprendo che quel mondo lontano, lontano, che io desideravo tanto conquistare da bambino, era qui a Todi e mi aspettava da un po’. Nell’enclave tuderte di intellettuali e artisti stranieri (vi narro solo della jet-society anglo-americana) che qui si ritrovarono, c’erano personalità notevoli e di grande qualità: i capostipiti ad honorem, perché arrivati per primi con grandi mezzi, erano la scultrice Beverly Pepper e Bill suo marito, scrittore e giornalista per la rivista Newsweek. I quali nel tempo hanno lasciato a Todi una loro fondazione e un grande parco di sculture che svetta fieramente sulla città. A trenta metri da una mia vecchia casa nel cuore di Todi, negli anni settanta si stabilì l’editore di Art in America e critico d’arte di Art Forum, il pittore (con lo pseudonimo Patrick Ireland) Brian O’Doherty e sua moglie Barbara Novak, storica dell’arte.
Brian, grande chiacchierone, è un sarcastico spilungone, scarpe grosse cervello fino. Ha scritto il libro di critica più venduto al mondo, dal titolo “Inside the White Cube” (tradotto in italiano con il sottotitolo: “L’ideologia dello spazio espositivo” nel 2012), testo che contesta l’uso dello spazio espositivo delle gallerie del “todo blanco” come cornice miracolosa che rende qualsiasi oggetto opera d’arte. O’Doherty, irlandese cresciuto a Dublino, ma d’adozione newyorkese, dedica alla città di Todi un unicum: “La Casa Dipinta”. Un’affascinante opera di pittura muraria continua su tre livelli che, simbolicamente, raccoglie le sue suggestioni formate da lettere alfabetiche celtiche e romane, numeri e geometrie coloratissime.
In quella stessa viuzza, accanto a dove abitavo, prima della mia casa, soggiornava anche il mio amico pittore espressionista astratto di scuola newyorchese Paul Russotto. La sua famiglia era d’origine lucana, aveva un contratto con la Kouros Gallery di N.Y., presso la quale feci anch’io, negli anni, varie esposizioni. Poi io vendetti quella casa ad un altro personaggio inglese, conosciuto in tutto il mondo, gentile e sornione, fantasmagorico e allegro, il mimo, ballerino, coreografo e pittore Lindsay Kemp. Negli anni settanta a New York, sulla scena artistica mercantile, dominava la galleria di Leo Castelli, ma secondo per importanza senza dubbio veniva lui, il gallerista, collezionista e costruttore Joseph Helman.
Joe e sua moglie Ursula si stabiliscono alla fine degli anni sessanta prima a Roma nel quartiere ebraico e poi in un castello qui a Todi. Helman da molto tempo ha smesso di fare il mercante: aveva iniziato a collezionare negli anni cinquanta quando, venticinquenne, da un barbiere, sfogliando una rivista di cronaca che riportava un quadro (lui non ci capiva niente d’arte), si disse: “mi piace, lo voglio”. L’autore si chiamava Jasper Johns. All’epoca il giovane Joe aveva appena finito di costruire il suo primo villaggio per cinque mila persone, poi divenne il gallerista di Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Jasper Johns, Ellsworth Kelly, Richard Serra. E partecipai anch’io ad una collettiva nella sua galleria di N.Y. nel 1985.
La straniera che si affezionò più a me, in quel periodo, fu la critica d’arte maggiormente riconosciuta in America e in Europa: Barbara Rose (1936-2020), moglie di Frank Stella. Anche lei residente nella zona south-west della periferia tuderte. Con lei conobbi altri bravi pittori, suoi amici che le abitavano accanto, Al Held e Paul Manes. Barbara, che nel frattempo era passata in Spagna a collaborare con il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, era una figura fine, bionda, occhi verdi vispi, spirito di fuoco, quasi sempre entusiasta, pronta a qualsiasi sfida polemica… la definirei una Giovanna d’Arco dell’Arte Internazionale. La sua concezione dell’arte era ben riassunta in quella grande mostra internazionale da lei curata alla Reggia di Caserta nel 2018: “Painting After Postmodernism”**, con 24 autori e più di 80 grandi opere, comprese le mie.
Alla presentazione dell’esposizione sottolineò che “la buona arte, il fare arte è solo una questione di slowness”, di lentezza… e cioè di meditazione. Nel 1999 mi sono spostato per vivere su di un ameno colle, nella campagna di Todi verso nord, sotto un borgo medioevale di montagna, perfettamente circolare, Montecastello di Vibio, che per venti anni ha ospitato la Scuola d’Arte Internazionale del pittore astratto espressionista Nicolas Carone, una scuola solo per insegnanti e studenti americani. Nick era simpaticissimo, da giovane aveva frequentato Jackson Pollock e Arshile Gorky. L’entourage anglo-americano si completava con i ricchi industriali venuti dagli “states” democratici, come quelli collegati alla Warner Bros e a Facebook, oppure con Peter Mullin, grande assicuratore, e il suo amico Miles Rubin, produttore di auto elettriche. Ma anche con fotografi, come il metafisico italo-americano George Tatge, collaboratore della rivista Art Forum e dirigente tecnico-fotografico della Fratelli Alinari di Firenze, con attori come Ben Gazzara, allievo all’Actors Studio, che ha lavorato nei film di Otto Preminger e di John Cassavetes, in Italia con Mario Monicelli e ha interpretato film insieme ad Anna Magnani e Totò.
Nelle valli intorno alle colline di Todi abitavano gli artisti più giovani: il concettuale minimalista americano Jack Sal, anche lui grande giramondo, così come il pittore figurativo Paul Harbutt, inglese, con esperienze americane. Un tipo molto bizzarro così come la sua arte; vendette poi la sua proprietà ad uno dei più grandi collezionisti d’arte romani, l’avvocato Stefano D’Ercole. Un personaggio timido, misterioso, ma un letterato raffinatissimo, che ha passato la maggior parte della vita a ripercorre le tappe italiane della vita di Ezra Pound, ha vissuto per un anno a Todi; lo frequentai con piacere, era critico e curatore di mostre: l’americano Alan Jones, amante della Pop Art e amico di Leo Castelli. Al quale ha dedicato un bellissimo libro: “Leo Castelli l’italiano che inventò l’arte in America”.
Della pittrice inglese iperrealista Raphaella Spence conobbi per prima la madre, una signora di una certa età, minuta, capelli grigi scarmigliati, vestiti stile hippie. Si notava in giro, nei vicoli medioevali di Todi, su una malandata Range Rover bianca, noblesse oblige. Raphaella, nata a Londra, è discendente di una veterana e nobile famiglia inglese, tutti architetti e provetti pittori, che dalla metà degli anni cinquanta del secolo scorso hanno avuto a che fare con il nostro paese. Suo nonno, Sir Basil, progettò l’ambasciata britannica a Roma. E per finire, come in tutte le belle favole c’era lei, nella sua veste più sfavillante, soprattutto agli occhi dei miei gemellini, che da piccoli erano fieri di conoscere la Principessa Ines Theodoli Torlonia, naturalizzata newyorchese, una simpatica pittrice intellettuale. Donna Ines, alta, elegantissima, capelli rossi, occhi verdi, oltre ad essere stata strettissima collaboratrice di Michael Bloomberg, sindaco della grande mela, è ora nel board artistico in una delle sue fondazioni.
Soprattutto d’estate, nelle varie magioni, a Todi era un susseguirsi di feste, cene e pranzi luculliani, serviti e riveriti. Ci si conosceva, si parlava d’arte e di affari… e si scoprivano i segreti dietro le quinte… Poi improvvisamente cala il sipario… la mia favola vera finisce qui. Quel posto agognato “più grande”, più internazionale, così dinamico e luminoso, presente negli onori e nei guadagni che avevo raggiunto, mi si spense dentro… avevo allora capito che, conoscendolo da vicino con i suoi pregi e difetti, quell’altrove, mondano parcheggio, non m’interessava più.
Non era il grande posto che desideravo veramente, ma il posto più profondo che potevo trovare qui, dentro di me. Mi isolai nella mia ricerca interiore, frequentando sempre di più sia il Centro Europeo Ananda, un tempio tutto blu sopra le montagne di Assisi, dove ho trascorso delle belle giornate ariose insieme alla mia famiglia e al maestro americano allievo del celebre filosofo Yogananda, l’allegro Swami Kriyananda, sia presso il mite e arguto eremita, Frate Bernardino, alla Romita, sopra Cesi.
Fesso, o di parte
La mia favola non sarà certo di “serie A”, ma per me è stata miracolosa. E comunque in prospettiva, dal basso verso l’alto, ho potuto vedere tutti gli spigoli e i punti di fuga assonometrici, ombre e luci del mio tempo, annotandoli simbolicamente dentro verità indiscrete. Non pensate che vi farò mangiare solo le bucce del mio egotismo, ora arrivano i piatti succosi, i piatti forti. Prima beviamo un po’ d’acqua fresca, analizziamo etimologicamente la parola “fesso”. Che vuol dire: taglio, diviso, fessura, forma concava… tanto che, in dialetto meridionale, il sesso femminile può anche essere chiamato la “fessa”***… Comunque l’accezione più comune di fesso è sciocco, scemo; ecco, scemo vuol dire che è solo mezzo (scemato), è calato di “metà”; vuol dire che è “di parte”… o mancante di una parte.
Un individuo non completo, il fesso emotivamente favorisce la separazione. E si potrebbe aggiungere anche, con un gioco linguistico ovvio, che il “il fesso è fisso!”, rigido, fermo quindi nei suoi giudizi e nelle decisioni di posizione. L’arte dei fessi piace non per quello che rappresenta, ma piace perché vale molto e anzi nel tempo si rivaluta e il suo prezzo cresce sempre di più. E questo attira l’avidità dei faciloni (che si nominano competenti), ai quali piace fare il colpaccio, scommettere al gioco d’azzardo, credere alle fortune illimitate, tentare le vincite senza sudore e sacrificio. Competere, sfondare, avere un potere, un ruolo importante, fare i soldi, diventare magari anche possibilmente dittatori, sfruttando la maschera della poesia e dell’arte è il massimo compiacimento per il depravato dell’arte fessa.
È incredibile come quest’arte fessa sia funzionale a questa società epidemiologicamente decadentista. E sia ancor più apprezzata a prescindere dai suoi “significati” insiti… che, anche se ravvisati in qualche opera, sono travisati proprio da quegli esperti venditori, imbonitori materialisti. Incapaci di discernere tra reali interessi storici e falsi desideri personali. E tra duplicati di idee passate e un’autenticità che conti, in quest’arte a prevalere è la forma mentis da status symbol; falsi ricchi di senso comprano e vendono inganni… Qual è il motore di tutto ciò? il vitello d’oro.
L’Arte Forte è invece, con una parafrasi Junghiana, un’operazione psicoanalitica alchemica. Cioè un principio d’individuazione e d’autenticità coscienziale dell’autore stesso, momento intimo di riflessione e di concentrazione creativa, vitale per la bellezza invisibile della propria anima. L’opera reale trasforma l’operatore o chi la guarda. Invece l’Arte Contemporanea, con i suoi prezzi alti, è forse sì una forma di comunicazione all’interno di un’élite. Ma l’arte così costosa diventa fenomeno di appartenenza e dà privilegi che altri non hanno e che non si potranno mai permettere. Allora, per essere alla moda, si può onestamente dire: “eh sì, l’arte fessa è molto elegante, perché rappresenta il sogno d’esclusività”.
L’arte fessa nella storia dell’arte ha fatto bella mostra di sé già dal Settecento: nelle Accademie Reali Parigine e Londinesi, nei Caffè e nei Saloon dell’Ottocento con l’art pompiers. E ancora si evidenziava la sua banalità anche quando diventava propaganda e propedeutica di stato. Guardiamo quella famosa del “Realismo Socialista” negli stati comunisti, o quella del periodo fascista o nazista. E perché non includere anche quelle più recenti dalle formulette pubblicitarie del nostro attuale sistema produttivo: la Pop Art**** e oggi l’arte digitale?
E ora un buon bicchiere di vino: la coscienza e l’intelligenza nella vita sono morali, perché etimologicamente hanno la stessa valenza. Il riconoscimento del bene e del male. Ci permettono di scegliere un adeguato comportamento verso la pratica del bene comune, il buon costume, e rendere così migliore la nostra sopravvivenza. L’arte forte è una Filosofia Iconica inclusiva, allena alla saggezza determinando il carattere probo di un individuo e di una collettività. Tale sinottica per me è cultura. La cultura non può avere una visione scema-ta, ma una prospettiva globale, universale, e per questo esercita l’astrazione e la saggezza che sono equilibrio.
Insomma, i fessi sono fuori dalla capacità del pensare per schemi di astrazione, perché essendo furbi prendono la via più logica: “elementare mio caro Watson!”. Eh già! Perché cultura, che è morale, vuol dire coltivare l’Astrazione: la Metafisica trasporta verso il principio della Speranza. Cioè attiva e coltiva ideali e ha la capacità di prevedere e attuare per primo il bene altrui, facendo così anche il proprio bene. Ora i miei ricordi vanno a quando avevo dodici anni e mio nonno Zefferino, mezzadro ma esperto di guerre mondiali, avendole frequentate abbondantemente, prima di morire mi ammoniva sovente riguardo a come comportarsi per evitare i fessi: una parabola militaresca che riassume le mie parole precedenti.
Mai dietro agli asini, mai davanti ai cannoni, mai accanto ai Generali!
Traduzione filosofica di strada: gli ignoranti scalciano, gli sbruffoni sono quelli che le sparano grosse. E, per finire, se tu stai accanto ad un potente, sarai costretto ad assumere le sue colpe. Com’è costruita un’opera “fessa”, che per rima si potrebbe dire “lessa”, cioè ben cotta e facilmente digeribile (ed è per questo che costerà molto)? Deve essere letta facilmente, compresa al volo, fast art. Per me l’arte senza sforzo comprensibile equivale sempre ad un addobbo facile per una casa fax-simile di un fax-simile. Ormai tutti i tavoli delle gallerie, fiere e riviste dell’arte contemporanea sono apparecchiati con freddure congelate e cotte al volo, per soddisfare subito i palati più puerili.
Adesso chi mangia carne vorrebbe che io facessi i nomi degli artisti fessi, per veder scorrere il sangue. Ma essendo vegetariano, sprizzo amore da tutti i pori, per tutti. Com’è costruita un’opera d’arte reale? È forte, è misteriosa e naturale, incomprensibile e indefinibile, incuriosisce per la sua poesia metafisica. Ha tempi di lettura lenti e durevoli nel tempo, enigmatica. Non se ne può parlare né la si può descrivere, trascende i tempi, e a volte si ostenta come oggetto di culto. Quest’arte è considerata minore dai competenti del bazar del successo, perché definita (riporto alcune testimonianze vere): arte dolce, arte di relax, arte di campagna, arte troppo spirituale, troppo complessa, non vendibile perché difficile da comprendere.
Così i mercanti scelgono l’artista banchiere; ci sono artisti che fabbricano certificati di garanzia pagabili al portatore, un bond. Coniano firme e schemi visivi di stile… all’ignaro collezionista poco importa cosa sia stampigliato sopra, l’opera d’arte vale come simulacro di una futura banconota*****. Barbara Rose, critica d’arte “impegnata” e testimone dei fatti, di come si fabbrichi un artista fesso, mi descriveva il vortice del vertice. Si prende un trust di amici di amici: galleristi, direttori di musei, di case d’asta, di riviste e di siti d’arte in internet e critici. Quello che per esempio Leo Castelli ai suoi tempi organizzava chiamandolo “La Grande Ruota”. Proprio così, esiste anche un’economia fessa, non sostenibile. Che è quella del capitalismo, perché inflazionistica, un’economia speculativa di sfruttamento, distruttiva, sempre in espansione accelerata. In un pianeta chiuso e per di più unico, con un imprescindibile equilibrio climatico umanamente tollerabile.
Ricordo che a Roma noi ragazzotti, provetti artisti, incontravamo un famosissimo gallerista (non faccio nomi per carità di Dio) al quale chiedevamo di darci delle date per esporre le nostre opere nel suo prestigioso spazio. E lui ci disse, come ultima frase, prima di salutarci: “state calmi, producete in silenzio, affittate un magazzino, riempitelo di opere, poi quando i prezzi saranno cresciuti, chiamatemi!”. Se ne andò lasciandoci esterrefatti, ma capimmo subito l’antifona dolorosa che si prospettava per la nostra carriera.
E ora servo il dolce, la frutta, il caffè e l’ammazzacaffè. Il Ministro per la Sanità Mentale del Vero Governo ha dichiarato che la malattia non si cura dall’esterno iniettando soluzioni, ma direttamente dall’interno curando la propria anima, iniettando arte forte 1000mg. In forza di un’ondata di varianti artistiche fesse virali, il Governo Estetico ha emesso dei decreti legge d’emergenza a causa dell’evidente Pandemia dell’arte fessa in tutto il mondo. L’Arte dei Fessi è un virus letale, attenzione, contagia, per sicurezza dell’ignaro collezionista infettato, ogni volta che esce dalle mostre fesse, allarme generale, si ordini di seguire il seguente protocollo: quarantena da trascorrere chiusi nei musei d’arte antecedente il secondo millennio. Notati effetti negativi di fronte ad un’opera fessa: Sintomi di rabbia, formicolio alle mani (voglia di picchiare) e ai piedi (voglia di scappare), di febbre… sonnolenza… depressione, noia, perdita di memoria, conati di vomito, giramenti di palle… Lockdown pubblico: anti imbrattatele a cottimo.
Prima di rientrare in società si prega di esibire il Pass rilasciato dal Virologo Patafisico di turno. Il Passaporto Artistico lascia passare la Metafisica, oppure recarsi all’Ospedale: Fate Bene l’Arte Fratelli o ai Pronto Soccorso dello Spirito Santo o agli Hub Ontologici o dal coloraio di famiglia. Per un’Arte Free dai virus dei fessi e per l’immunità di gregge dai collezionisti boccaloni, dai galleristi pecoroni marpioni, dai mercanti dinosauri caproni e da aste di genere elementare. Urge Sanità Mentale, tempistica: test d’Intelligenza del Cuore, certificato di conoscenza della Storia Classica Occidentale, Green Card per messa a fuoco della materia nell’ottica culturale, tamponi molecolari di Filosofia Classica, immunizziamoci lavandoci bene la coscienza con “aqua vitae” e con iniezioni di ottimismo…
Coprifuoco immortale, riabilitazione Eterna, obbligo di mascherine teatrali, guanti da giardino Eden, Autoambulanza Estetica, Intubati nell’Anima. Campagna vaccinale cromatica, Vaccini Astratti: il vaccino russo di Kandinskij-Malevich, il vaccino americano di Gorky-Ad Reinhardt. Il vaccino inglese Turner-Moore, il tedesco Beuys-Lüpertz. Il vaccino italiano Magnelli-Leoncillo e il vaccino spagnolo Miró-Tàpies. Per i richiami scavalcare la Zona Bianca delle opere minimali e monocrome. Oltrepassare la Zona Gialla delle opere materiche e informali. Ignorare la Zona arancione delle opere dei designer e dei cinetici. Correre lontano dalla Zona Rossa di art naif e art brut.
NOTE:
*”L’Arte Fessa” è la mia traduzione di Art Crap cioè “arte di merda”, definizione dell’artista americano Beeple Mike Winkelmann per la sua opera grafica “The First 5000 Days”, battuta all’asta da Christie’s per 69,3 milioni di dollari nel 2021… <>… diventando la prima opera d’Arte/moneta NFT (Non-fungible tokens).
**“ Painting After Postmodernism” 2018, Reggia di Caserta, a cura di Barbara Rose cito… solo gli autori italiani: R.Caracciolo, A.Casanova, B. Ceccobelli, E.Chiricozzi, G.Dessì, N.Longobardi, R.Pietrosanti, M.Tirelli, R.Vasta.
***“fessa”… un pettegolezzo: da persone milanesi che conoscevano bene Lucio Fontana, ho appreso come lui difendesse il fatto, con una certa serietà, che i suoi tagli rappresentassero il sesso femminile!
****Pop Art: faccio riferimento solo al bellissimo articolo di Ugo Nespolo “Arte e Spionaggio”, uscito sul Foglio il 05 Aprile 2021.
*****La futura banconota oggi si chiama NFT: cioè un nuovo tipo di criptomoneta, bolla speculativa basata su Blockchain (un registro elettronico non tracciabile) N= non F= fungibili T= gettone, moneta pezzo unico non frazionabile né replicabile né convertibile; a questo punto arriva l’opera d’Arte Fessa per una economia fessa.