Una Biennale che va oltre la disciplina tecnica per interrogarsi su come ricostruire il corpo sociale, dilaniato da crisi economiche, politiche e morali. Una Biennale che guarda al futuro con le idee chiare sul da farsi, proponendo progetti concreti di sviluppo, ma anche spunti di riflessione a carattere più artistico. Fino al 22 novembre 2021. www.labiennale.org
Venezia. La recente pandemia, peraltro ancora in corso, ha innegabilmente posto nuovi interrogativi circa le dinamiche di condivisione degli spazi, e ha aggravato le problematiche già esistenti in materia. Dopo un anno in cui l’umanità ha riscoperto istinti barbarici e profondi slanci spirituali, la questione della convivenza torna necessariamente al centro del dibattito, fra esseri umani così come fra questi e l’ecosistema del pianeta. Negli ultimi trent’anni, la politica ha dimostrati tutti i suoi limiti e incompetenze, e davanti all’evidenza Hashim Sarkis, l’architetto libanese curatore della 17a Biennale Architettura, ha scritto nel suo testo di presentazione della sua mostra: «Non possiamo più̀ aspettare che i politici propongano un percorso verso un futuro migliore. Mentre la politica continua a dividere e isolare, attraverso l’architettura possiamo offrire modi alternativi di vivere insieme». Infatti, non si tratta di costruire o ricostruire edifici o quartieri, si tratta di ricostruire il corpo sociale di tutto il mondo, che ha cominciato a disgregarsi ben prima dell’inizio della pandemia: da almeno trent’anni, infatti, l’invasione della tecnologia, l’esasperazione dell’individualismo, il consumismo, lo scadimento morale della classe politica sempre più legata al potere economico, hanno profondamente alterato un tessuto sociale che sino alla metà del Novecento poteva ancora dirsi sano.
Se i Padiglioni nazionali si orientano generalmente su un recupero del passato, sia in termini di pratiche architettoniche sia in termini di modalità di convivenza, la mostra internazionale si propone invece come un laboratorio di esperienze e progetti volti a incidere non tanto sull’estetica dell’abitare, quanto sulla mentalità della condivisione dello spazio da intendersi come convivenza in senso lato. Una mostra più umanistica che tecnica e che conferma la tendenza inaugurata da Alejandro Aravena con Reporting from the front nel 2016. Anche How will we live together? – la grande mostra internazionale all’interno della Biennale Architettura, quest’anno nella doppia sede dell’Arsenale e dei Giardini – affronta tematiche tanto fondamentali quanto urgenti, dai diritti umani all’emergenza climatica, dall’accesso alle risorse a un loro consumo responsabile.
Esperienze da tutto il mondo, dall’Africa all’Europa, fino all’Estremo Oriente e al continente americano, che mettono insieme architettura, design, coscienza ambientale. E ancora una volta non passa inosservata la miglior qualità e la concretezza dei lavori degli architetti italiani attivi anche all’estero, selezionati per la mostra internazionale, rispetto a quelli scelti dal curatore di turno del padiglione Italia; se qui si ritrovano progetti locali (qualcuno anche valido, come l’esperienza di Peccioli nel trattamento virtuoso dei rifiuti), all’estero gli architetti italiani pensano e lavorano in grande. Un esempio viene da UNLESS, un’organizzazione no pofit di Amburgo, emanazione di UNA Studio di Giulia Foscari, che progetta musei, spazi culturali in genere e installazioni espositive, da un punto di vista multidisciplinare che comprende architettura, design, storia e realtà sociale del territorio, antropologia, in’ottica di progettazione condivisa con le esigenze locali. Perché la cultura deve essere offerta e non imposta dall’alto.
Altro importante contributo italiano viene da Giulia Andi, cofondatrice con Finn Geipel di LIN, studio d’architettura con base a Berlino e Parigi, che ha affrontato la questione della mancanza di alloggi a prezzi accessibili nelle grandi città, dove l’aumento della popolazione e della domanda di abitazioni ha significato anche un aumento speculativo dei costi edilizi. È quindi nato Bremer Punkt, progetto pilota già sviluppato a Brema, inserito in un contesto urbanistico già esistente allo scopo di risparmiare suolo, e incentrato su un sistema modulare di cubi prefabbricati in legno di quattro piani che possono ospitare fino a undici appartamenti per edificio. Ognuno dei quali ha ampie finestre, spaziose superfici verdi esterne, orientamento ottimizzato a sud-ovest e una tecnologia edilizia moderna e sostenibile che garantisce un elevato livello di comfort. Attualmente ci sono sette Bremen-Cubes in progettazione e realizzazione nei distretti di Neustadt, Kattentum e Schwachhausen, e altri edifici da implementare. Altrettanto interessanti i progetti dello studio olandese Cohabitation Strategies – di cui fanno parte due anche italiani, Lucia Babina e Emiliano Gandolfi – particolarmente impegnato in interventi di riqualificazione urbana volti ad abbattere le barriere razziali e a favorire l’incontro interetnico.
Si avverte quasi ovunque la necessità di aprire gli spazi, soprattutto quelli mentali, attraverso nuove forme di vita pubblica come programmi educativi, parchi “interattivi”, seminari all’aperto; è necessario un nuovo umanesimo urbano che riporti l’individuo al centro dello spazio. L’inclusione sociale, l’incontro fra etnie, l’istruzione, sono al centro dell’agenda di tanti architetti contemporanei, lontani dalle pacchianerie delle “archistar”, e radicati, invece, nella realtà dei bisogni primari della società. È il caso del TUMO Center for Creative Technologies, un programma educativo gratuito basato sul metodo attivo del mutuo apprendimento, attivo in Armenia ma con sedi anche a Parigi, Berlino, Mosca, Tirana. Il programma si svolge in ambienti progettati ad hoc, dotati di postazioni di lavoro mobili, arene di dibattito, spazi verdi. Luoghi di socialità e di crescita civile.
Non mancano esperienze umanitarie nel campo della sanità, ad esempio in Senegal, nella città di Tambacounda, dove lo studio Manuel Herz Architets, con il supporto della Fondazione Josef e Anni Albers, ha progettato un ospedale ispirato alle opere dei artisti e all’estetica del Bauhaus. Il Tambacounda Hospital – l’unico grande ospedale della regione – è una risorsa vitale che serve circa 20.000 pazienti all’anno dall’area circostante, che si estende oltre il confine fino al Mali. “Vivere insieme”, in un’ottica più ampia, significa anche garantire a tutti i cittadini il diritto alla salute.
L’architettura, quindi, sta andando ben oltre i suoi compiti, e sta facendo quello che la politica non riesce più a fare, per cattiva volontà o per manifesta incapacità. Un impegno quotidiano di pianificazione non soltanto tecnica, ma civile, per una riappropriazione degli spazi pubblici, per riaccendere il dibattito e stimolare il senso critico dei cittadini, sempre più coinvolti in processi partecipativi. Se l’umanità vorrà davvero salvarsi, dovrà necessariamente cambiare mentalità e stile di vita, almeno nei Paesi più ricchi. Dalla Biennale pensata e curata da Sarkis giungono le idee e gli strumenti per farlo. Con umiltà, il mondo della politica, anche e soprattutto italiana, potrebbe imparare molto dagli architetti, e agevolare il loro lavoro.