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Bruno Ceccobelli. Arte-fatti Paraculi e Paranormali

Bruno Ceccobelli, 1988, foto Courtesy Archivio Pino Settanni Bruno Ceccobelli, 1988, foto Courtesy Archivio Pino Settanni
Bruno Ceccobelli, 1988, foto Courtesy Archivio Pino Settanni
Bruno Ceccobelli, 1988, foto Courtesy Archivio Pino Settanni

Critiche “patafisiche” di Bruno Ceccobelli negli incontri con Enrico Baj, Pino Settanni, Giacomo Manzù, Gigi Guadagnucci

La pittura è il mestiere più antico del mondo, insieme “all’altro”; anche per Platone, la pittura come mimesi, era considerata una prostituzione alla realtà.
Prima degli Illuministi c’era la scienza del bello di derivazione platonica e poi neoplatonica, dove si affermava con sicurezza che il bello, “metro” perenne di comparazione con il divino, corrispondeva all’armonia tra il Bene, il Giusto e il Vero; capite l’ampia portata di un’arte paranormale filosofica politica ed economica di un tempo!
L’estetica, pilastro discrimine dell’arte moderna e contemporanea nella sua accezione più nobile, in buona fede si potrebbe intendere come lo studio dell’insieme dei Canoni della Bellezza, disvelati durante i secoli, ma in realtà sin dalla sua formulazione, in questo sostantivo c’è un vizio di forma.
Chiariamo che per il filosofo tedesco illuminista Alexander Gottlieb Baumgarten (1714- 1762) artefice della Aesthetica, il bello è inteso come esperienza delle proprie percezioni sensibili, cioè una scienza dei gusti, o della moda e quindi una scienza individuale… paracula.
Tutto è arte, niente è arte, pochi i capolavori.
L’arte Contemporanea è stata una manovra di strategia militare: l’avanguardismo, occupazione di territorio e di spazi che si chiamano immacolate gallerie, caseifici musei, paginate di riviste, stanze segrete dette case d’aste, piazze e soprattutto anonime rotonde autostradali, il tutto senza lasciare delle retroguardie illuminanti e senza polluzione notturna.
L’arte contemporanea è stata usata dall’economia neoliberista come distrazione di massa, a discapito di tutte quelle folle di imbambolati voyeuristi-onanisti che in tanti anni hanno potuto svagarsi: in gallerie, nei musei, nelle fiere, in letture, solo passivamente, senza nessun costrutto.
Aldilà delle qualità personali e della buona coscienza o delle vanità dei singoli artisti eccezionali, nell’insieme, i movimenti artistici del secolo scorso si sono bellamente spartiti il bottino di guerra di un mercato padrone che ha gestito un immenso luna park estetico, pieno, per la maggior parte, di arte-fatti paraculi.

 

Jeff Koons con coniglietto
Jeff Koons con coniglietto

L’arte contemporanea è stata, dalle avanguardie in poi, percepita, per via del mercato, come una stravagante “bizzarria” che prima o poi sarebbe valsa una fortuna.
L’artista materialista, come fiore del male, è ridotto da una società razionalista tecnoscientista a discendere nell’inferno: fare scandalo, fare successo, uguale a Money, Money, come ne “L’opera da tre soldi”*, il personaggio Mackie Messer si definisce “artigiano del crimine” e si assolve con la frase: “Che cosa è rubare una banca, rispetto a chi fonda una banca?”.
Per gli artisti del passato classico, dai più grandi ai medio protagonisti, l’arte non ha mai rappresentato una carriera, una “ricchezza” materiale; nella materia costoro vedevano un’idea da estrarre, da esaltare; l’altro ieri, oggi e dopo domani, all’opposto, gli scaltri… dell’arte paracula percepiscono nella materia un business.
Ricchi dentro si nasce non si diventa.
Certo, oggi, l’arte non viene più pensata, ne’ vissuta come vocazione, o l’ossessione di una follia, o come una grandezza titanica che sfidi i secoli, oppure come un possibile evento ierofanico, come spesso avveniva nel passato.
I geniali artefici romantici e idealisti componevano capolavori paranormali pieni di messaggi, con i quali sapevano rivoluzionare se stessi e i loro posteri.

 

Apollo e Dafne del Bernini alla Galleria Borghese
Apollo e Dafne del Bernini alla Galleria Borghese

Un momentino, se state pensando che sputi sul piatto dove ho mangiato abbondantemente, si è vero, ma avete sentito mai parlate del diritto alla critica costruttiva, o del giusto sarcasmo contro i dispotismi o delle arrabbiature mitologiche contro i blasfemi?
Ma ricordiamoci incessantemente che un’opera “vera”, venduta, non sarà mai una “cosa” o un oggetto d’arredo, ma un pezzo di vita e frammento di pensieri eterni.
Un esempio in onore del settecentesimo anniversario del Divin Poeta Dante, due strofe dal canto XVI del Paradiso: “mirabil cosa non mi sarà mai: ché là dove appetito non si torce, dico nel cielo, io me ne gloriai.” … “Le vostre cose tutte hanno lor morte, sì come voi; ma celasi in alcuna che dura molto, e le vite son corte.”
OopArt, oggetti fuori luogo, deriva da Out Of Place Artificial: manufatti fuori dal tempo, questa per me è la vera arte che ho cercato d’ammirare nei capolavori e di eseguire con cura.
Un giorno a Milano nel 1996, sottobraccio ad Enrico Baj per una sua mostra dal nostro gallerista Giorgio Marconi, con il suo bel sorriso smagliante mi disse: “il mondo è tutto uno oggetto, è dominato dal sistema degli oggetti”.
Ancora, di più, si manifesta “La rivolta degli oggetti”** l’horror vacui degli oggetti quotidiani che ci circondano nelle nostre stanze; essi seguono le loro traiettorie gravitazionali spesso a noi avverse e s’intrecciano con certi uomini che sono considerati anch’essi “oggetti” dai poteri costituiti e che non avendo direzione tendono a scontrarsi fra loro, con loro.

 

Enrico Baj, ritratto di donna monocromo
Enrico Baj, ritratto di donna

Sul finire degli anni Ottanta, Pino Settanni***, fotografo romano, provetto creativo, ex collaboratore di Guttuso, adorava particolarmente gli oggetti d’affezione personale tanto che, nella sua serie di ritratti di personaggi conosciuti del mondo dell’arte e della cultura, faceva sempre indossare loro cappelli, sciarpe, mantelli, scarpe e il resto del surreale quotidiano, perché descrivessero la nota “colorata” di ognuno.
Pino mi fece conoscere Giacomo Manzoni****, in arte Manzù (Bergamo 1908 – Roma 1991), ad Ardea, in un paese, Fossignano, a sudovest della capitale.
Grande emozione arrivare a “toccare” un mito della mia prima formazione, artista geniale e spirituale, credente cattolico; suo padre era calzolaio e sagrestano, Giacomo aveva conosciuto e lavorato per due papi (Papa Giovanni XXIII e Paolo VI) e per vari cardinali.
Pino doveva fare un ritratto al Maestro, scelse un mattino nel quale sapeva non ci sarebbe stata la seconda compagna e musa dello scultore, Inge Schabel, la quale lo amministrava saggiamente e lo teneva protetto da eventuali scocciatori.
Dentro ad un bosco a mezza collina, Manzù ci accolse flemmaticamente nella sua grande villa; poco prima eravamo passati davanti al suo museo, che era lì vicino.
La sua magione aveva un grande ingresso, con scalinata ampia che portava su di un vasto piazzale, con qualche sua opera nei punti panoramici, da una parte l’abitazione, dall’altra lo studio: un ampio capannone pieno di finestroni.

 

Giacomo Manzù nel suo studio con una scultura per un ritratto di sua moglie
Giacomo Manzù nel suo studio con una scultura per un ritratto di sua moglie

Giacomo era di statura media, corpulento, d’impatto misterioso, taciturno e guardingo, ti scrutava dal basso in alto con i suoi occhi neri e malinconici, ma dolci, sembrava in soggezione, poi però, quando parlava, di colpo rispondeva veloce e in dialetto bergamasco, con frasi brevi, fulminanti.
“La sedia è stata la mia prima modella” e altre indimenticabili come quelle raccomandazioni che si possono considerare versi, in una lettera a suo figlio Pio per i suoi primi impegni, una vera e propria preghiera artistica: “…Segui solo il difficile, non lasciarti tentare dal facile; il difficile è virile e può portare anche al miracolo…” e ancora “…con la bontà si può conquistare tutto e tutti…”
Nelle sue sculture il modello, il vero, era trasformato nello stile della grazia e cioè nella “configurazione” delle linee talmente sintetiche e semplici da apparire non date da mano umana, ma accettate dall’alto, il pollice del maestro si sapeva sottomettere alla Sacra Bellezza.
L’oggetto più cool di un abbigliamento per un artista è il cappello, oggi piuttosto desueto per gli artisti neo-alienati, tipico per tutti quegli artisti del passato prossimo.
Il cappello è un po’ la bandiera sul tetto, da quel drappo si vedono i tuoi ideali e il tuo umore.
Giacomo non faceva eccezione, i copricapo erano una sua forte passione, così Pino iniziò a fare degli scatti con cappelli portati per l’occasione, il maestro, incuriosito, lasciava fare, felice come un bimbo, intanto Pino accelerava i suoi scatti e ad un certo punto, nella sua estemporanea esaltazione creativa, prese il mio cappello afgano, comprato nelle mie prime esposizioni a N.Y., e lo mise in testa a Giacomo, Pino scattò ancora.

 

Manzù ritratto nel 1989, foto Courtesy Archivio di Pino Settanni
Manzù ritratto nel 1989, foto Courtesy Archivio di Pino Settanni

Manzù scultore trascendentale, paranormale, per i suoi personaggi vaticani eccelleva nelle forme plastiche allungate, coniche, ma non disdegnava forme astratte come: sfere, semisfere, ovali, valve, semilune, stelle e nastri di bronzo come quello enorme, bellissimo, che troneggia nel suo museo ad Ardea sui riflessi d’acqua, aleggiando nella sua voglia d’infinito.

 

Un'opera di Manzù
Un’opera di Manzù

Già, l’infinito, non più espresso nel sociale e nell’arte, adesso siamo attaccati tremolanti ai mass-media generalisti, che ci dettano minuto per minuto le statistiche, i sondaggi, le curve d’andamento, la conta dei ricoverati e dei morti, la curva paracula della paura che ci attanaglia ai loro comandamenti.
“Aaa ufooo!” mi grida dietro il mio coloraio Massimo, del quartiere romano di San Lorenzo… perché ero passato davanti al suo smercio, impettito, senza salutarlo, era il 1984, avevo fretta di “arrivare”.
L’Uomo del Monte, Obama, ha detto sì! Gli alieni esistono, un domani ci sarà la giornata della memoria degli alieni, ricordatevi di celebrarla, ricordiamoci della loro venuta, ricordiamoci dei nostri creatori e ricordiamoci di quanto noi siamo Alieni.
Ognuno di noi è un extraterrestre, perché ognuno di noi viene dal suo mondo, più o meno “vicino” a questo globo terracqueo alienato.
Dopo i Virus sfegatati e bullizzati in laboratorio ora ci sono quelli alienati dagli umani, divenuti ora nostri autocrati; avremo così, in contemporanea, una doppia dittatura se aggiungiamo quella del “pericolo caduta dischi volanti”, (attenzione si è autorizzati a girare solo con un radar in testa); quindi Virus più Visitors.
Il primo tra gli arte-fatti mercificati, alienati del 2021, in questa maionese sociale impazzita è il nostro cervello.
Scusate se “ricomincio da tre”, dai tre cervelli della nostra supposta evoluzione darwiniana; parto dall’omuncola Lucy con il “cervello rettiliano”***** quello dell’offesa, difesa, cibo, sesso e cacca… quindi il cervello della pancia, quello conservatore.
Poi abbiamo il cavernicolo, il neanderthal man con il “cervello mammiliano”, il cervello del cuore, lo sviluppo della famiglia, il bipede raccoglitore fruttariano, la transumanza, la fratellanza del gruppo, la cura del corpo e dei propri morti, la musica e i graffiti sulle pareti delle grotte, il periodo del matriarcato, le dee lunari… sono i paleolitici in forma Peace & Love.
Ed infine, arriviamo di corsa all’uomo Sapiens sapiens, abilis, con il “cervello razionale” il cervello mentale che mente: l’artigiano, lo scienziato, il commerciante, il progressista democratico, il patriarcato maschilista, gli dei solari: verga, vergare, cultura.
Quest’ultimo esemplare pensò subito: “Uhm… uhm… la somma per me, la divisione per gli altri, la moltiplicazione per me, il meno per gli altri” e vide che l’ipercapitalismo era buono.
Siamo arrivati al domani, al transumanesimo, al mezzo uomo metrosessuale digitale virtual-puerile, all’iper-sapiens, allo sviluppo quantico del “cervello artificiale”, artefice del “grande reset”****** del Golden Age of Capitalism e della “Shock Economy” gestito dai magnati… filantropi mangiapopolo.

 

La celebre frase di Bill Gates citata da Ceccobelli

Nell’odierno noi, nomadi digitali, non viviamo più per la gloria eterna del post-mortem, si preferiscono i like e il fashion dell’eleganza momentanea ai fenomeni paranormali, si è instaurato il terrore per il capolavoro puro e duro.
Lo scultore del marmo Giuseppe Guadagnucci nato e morto a Massa 1915-2013, a ventun anni emigrato in Francia a Grenoble, per evitare il regime fascista, lì aderì alla resistenza dopo esser già stato arruolato alla Legione Straniera.
Alla fine della seconda guerra mondiale è a Parigi e diventa amico di Alberto Giacometti, Ossip Zadkine, Zoran Mušič, Severini, Yves Klein, César e Tinguely.
Passa la maggior parte della sua vita in Francia, tanto da meritare, 1983, dal ministro della cultura Jack Lang, l’onorificenza di Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres.
Era un meriggio splendido d’estate, fine anni Novanta, dopo esserci inerpicati sulle colline intorno a Carrara, precisamente a Bergiola, io e un comune amico troviamo Gigi nella sua casa Atelier, ad aspettarci.
Conoscevo i delicati bassorilievi erotici in onice che il critico Jean Clair in uno scritto definì: “Les Lithophanie d’Eros”; dai monumenti ai piccoli bassorilievi sono opere, quelle di Gigi, conosciute in tutto il mondo per la loro perfezione e perizia d’esecuzione.

 

Un bassorilievo erotico di Gigi Guadagnucci
Un bassorilievo erotico di Gigi Guadagnucci

Ammiravo le sue sculture bianchissime, gracili forme pure, angeliche come foglie delicate, chiaroscurali fiori evanescenti, appena sbocciati da un’inezia di marmo immacolato; volevo conoscere da vicino l’artefice di tanta grazia paranormale.
Gigi mi apparse alto, charmant, raggiante, sempre sorridente, vestito alla francese: camicia leggera a fiori vistosi e un foularino di seta anch’esso coloratissimo, voce un po’ afona con un toscano misto ad accenti francesi, con occhi di un blu profondo, capelli lunghi bianchi arruffati, sopracciglia bianche lunghissime, un fusto robusto.
Per farmi sentire a mio agio, Gigi, da vero cavatore, mi offrì subito vino, pane e prosciutto autoctoni, mi colpì la sua casa atelier agreste, genuina, non molto grande, isolata nel verde collinare, in nessun modo artefatta culturalmente, non si comprendeva dove finisse la grande cucina e dove iniziasse il suo laboratorio.
Le sue sculture erano da per tutto, diafane, accecanti, magnifiche.
“L’arte è un modo di vivere, un modo di stare al mondo” con questa sua frase così semplice e ardita, questo personaggio vispo, infaticabile, che credeva solo ai sudori delle spalle e ai dolori delle braccia con ancor più forza mi conquistò.
Ci inondò con un affastellamento di racconti venuti giù dai fiumi delle Alpi Apuane e dai Pirenei, pieni di interessanti particolari, con una notevole forza di trascinamento… altra sua frase lampante: “io ho preso tutto al volo come lo spirito.”
Coraggioso, tutto d’un fiato, prima me lo disse in francese e poi in italiano:”io non ho paura né del diavolo, né del tuono” forse è per questo che è vissuto fino a cent’anni.
Peccato, non ha potuto vedere il suo frutto riassuntivo, la sua pietra filosofale: dopo morto gli hanno dedicato un bellissimo Museo a Massa, a Villa della Rinchiostra.

 

Sculture di Gigi Guadagnucci
Sculture di Gigi Guadagnucci

Naturalmente, ora, vi sto raccontando vicende di un piccolo mondo antico sopravvissuto a se stesso, però non vi ingannate pensando che finito il dichiarato coronavirus Covid-19 tutto tornerà come prima.
Spesso le verità di palazzo sono sconosciute a noi comuni mortali… “avanti popolo alla fossa senza riscossa…”
Nel mondo gaio della Demofarmacrazia avariata:
“Padre Nostro Relativo che sei nei cieli Stelle e Strisce, sia santificato il tuo Marchio, venga il tuo Farmaco, sia fatta la tua volontà come nella Finanza così tra gli infettati, dacci oggi il nostro Vaccino quotidiano e rimetti a noi i nostri virus, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, non abbandonarci alle tentazioni, ma liberaci dalla salute altrui”.
Succede oggi: ora la nuova Art-Coronavirus si dovrà confrontare con questo bell’esperimento epidemiologico democratico scientista di derattizzazione massiva dell’umana deficienza, lavoratori non più alla riscossa : “evviva il consumismo, evviva il comunismo, croce rossa là trionferà”.
Vedo già artisti paraculi e sfortunati che urlano: “Su dateci alla svelta i trenta denari!” dopo aver disegnato “l’Uomo Covidiano” in una stanza ovale, su di un letto rettangolare e modellato con tubi e siringhe dalle forme buffe e dai colori fluorescenti a pois.

Bruno Ceccobelli

Note:
*)“L’opera da tre soldi”, commedia musico-satirica del 1928 di Bertolt Brecht con musiche di Kurt Weill che racchiude bene questo paradigma borghese.

**) “La rivolta degli oggetti” spettacolo teatrale della Gaia Scienza 1976 al Beat 72 di Roma, testo di Vladimir Majakovskij del 1913, con Giorgio Barberio Corsetti, Alessandra Vanzi, Marco Solari e scenografie di Domenico Bianchi, Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì.
***) Pino Settanni 1949-2010 celebre fotografo, ricordo in particolare due sue importanti pubblicazioni dove tra gli altri sono ritratto anch’io: “Ritratti in nero… con oggetto” del 1989 e “La memoria delle Immagini” del 1998, entrambi di Pieraldo Editore.
****) Nel 1996 feci una mostra a Bergamo alla Galleria d’Arte Charta di Giacomo Manzoni figlio di Pio Manzoni.
*****) “La teoria dei tre cervelli” del 1962 formulata dal neuroscienziato americano Dott. Paul Donald MacLean (1913-2007).
******) “Il Grande Reset” (The Great Reset) proposta economica del World Economic Forum di Davos dopo la pandemia Covid-19.

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