CURATELA OFFRESI. Inventario per l’avvenire è un progetto curato da Arianna Desideri, parte del palinsesto di ISIT.exhi#001, collettiva di ISIT.magazine presso Spazio In Situ (Roma).
Per tutta la durata della mostra (15 maggio – 12 giugno 2021), la curatrice ha incontrato otto artist*, contattat* tramite open call: Leonardo Avesani, Jacopo Ernesto Gasparrini, Hardchitepture, mitikafe, Sofia Ricciardi, Sofia Tocca, Daniele Villa Zorn, zzzzz. Con ognun* ha preso avvio un dialogo specifico, con tempistiche e dinamiche su misura, riguardo le singole pratiche, i lavori trascorsi, correnti e in potenza. Il presupposto concettuale è quello di instaurare un affetto curatoriale che si basi sull’ascolto e sul confronto, sulla dedica, sull’ibridazione dei ruoli e dei punti di vista. Non c’è un percorso prestabilito, non c’è la fretta della produzione: il ritmo è scandito dalla necessità della condivisione, abbracciando l’imprevisto e valorizzando la processualità.
Il medesimo approccio, che valorizzasse la processualità, è stato tenuto per questa lunga chiacchierata con Arianna, sviluppatasi nell’arco di tre incontri: prima, durante e dopo la mostra.
L’intento è stato quello di restituire le impressioni, i cambiamenti di idee e di visioni che hanno accompagnato il percorso di Curatela Offresi.
Parte 1: L’inizio
Vorrei iniziare questa prima chiacchierata chiedendoti come hai selezionato gli/le artist* ?
Ho avuto un grande riscontro nell’arco del mese e mezzo in cui l’open call è rimasta aperta, ricevendo oltre 60 application. Mano a mano che arrivavano le candidature, vagliavo i portfoli, cercando di dare uno sguardo quanto più profondo possibile rispetto sia a essi, sia a quanto gli/le artist* mi scrivevano via mail. Sono arrivata alla scelta di quest* otto artist* dopo una lunga fase di visione, cercando di entrare nelle pratiche di ciascun*.
Il criterio di scelta è stato un fattore di imprinting con i lavori, sia da un punto di vista estetico sia concettuale. Poi, in realtà, più entravo all’interno dei lavori, più mi rendevo conto che le scelte fatte quasi d’istinto avevano a che fare con il mio percorso di ricerca storico/artistica o curatoriale, oppure con ciò che avrei voluto indagare come prospettive future, oppure per altre ancora è stata una scelta quasi “magica”, una sorta di affinità. Il discorso non si sta fermando a un piano di superficie, per questo sono molto felice delle scelte fatte.
E, paradossalmente, si è creata una forma di rapporto anche con chi non ho selezionato, perché a molt* ho scritto un messaggio in cui spiegavo che Curatela Offresi non si ferma all’occasione espositiva di ISIT.exhi#001 a Spazio in Situ, ma il concept va oltre. Insomma, mi interessa che il progetto sia un attivatore relazionale, un moltiplicatore di relazioni.
Il percorso che farai sarà singolo su ciascun* artist*? oppure ci sono possibilità di collaborazioni interne?
Questo è un aspetto che io non voglio porre come condizione a priori. Io li ho messi in contatto tra di loro, per ora vedo che non è nato niente, ma questo non credo derivi da una mancanza di voglia: ci stiamo conoscendo, gli-le artist* non sono neanche tutti di Roma, quindi è un po’ complicato. Ho notato però che quell* che sono passati durante l’allestimento della tenda hanno iniziato a confrontarsi spontaneamente, quindi magari nasceranno collaborazioni, magari non durante la mostra, ma per loro in futuro, perché no.
L’approccio allo spazio come è stato?
É stato l’inizio di tutto. Essendo stata una delle contributor del secondo numero di ISIT, sono stata invitata a pensare un intervento all’interno della mostra. E ho incominciato a strutturare il mio progetto partendo da questo presupposto: “come posso, da curatrice, intervenire all’interno di una mostra dove ci sono già altr* artist*, e in una mostra che cresce settimana dopo settimana?”.
Come ti sei posta rispetto ai contributi che ti circondano?
In un’ottica che non fosse ne antitetica ne oppositiva: è stato un meta lavoro. La mostra è una collettiva con altri contributi, in crescita, unificata da una stessa cornice, perciò ho pensato fosse interessante porsi nello stesso paradigma, e moltiplicare questo meccanismo relazionale. Questo è ciò che per me ha significato maggiormente ISIT, a livello personale e anche professionale, un contesto che non ponesse limiti alla sperimentazione e allo sconfinamento tra ruoli.
Io e il team di ISIT abbiamo un approccio affine, è come se avessimo condotto lo stesso lavoro. È stato un meta discorso quindi, ma anche un portare il mio approccio curatoriale. Sono partita ragionando sul site specific (dove stavo lavorando, che situazione avrei vissuto) e su quale sarebbe potuto essere il mio apporto. Inserendomi in quella situazione, ho sviluppato un concept che seguisse la mia pratica curatoriale.
A livello di restituzione, invece ? che forma avrà il tutto?
Sto lavorando con gli artisti, progettando interventi da realizzare, e quello che inizialmente doveva essere la visualizzazione di una pratica, o di un metodo attraverso il setting della tenda, sta diventando sempre più una materializzazione in fieri.
Da ISIT ogni sabato c’è un nuovo opening, in cui la mostra si espande accogliendo nuovi progetti. Io seguirò questa cadenza – altre volte la amplierò anche, modificando l’allestimento durante la settimana – e in cinque settimane porterò otto artist* a lavorare nella tenda.
Questa molteplicità di artist* mi sta anche portando a ragionare sull’idea di una ulteriore restituzione in forma scritta. Sto tenendo un diario che durerà fino alla fine della mostra, ogni volta lo aggiorno e lo pubblico, in stile blog.
Sto poi lavorando anche a livello di didascalia, per restituire la singolarità delle opere. Ogni artist* avrà la libertà di lavorare insieme a me su questo aspetto.
Quali difficoltà o elementi di criticità ti aspetti di incontrare?
Forse aver selezionato tropp* artist*, perché ho visto molti lavori che mi piacevano. Ho avuto una sorta di frenesia nella scelta. Il numero ti direi, nella misura in cui c’è il rischio di non dedicare sufficientemente spazio a tutti. Però c’è anche da dire che uno dei presupposti da cui sono partita con tutti e tutte è che il dialogo non deve soffrire di una sorta di ansia e fretta di produzione. Se il progetto nasce con presupposti di contatto e relazionali, bisogna tenere in conto che ci possano essere imprevisti e anche questi vanno accettati: credere nell’imprevisto come un orizzonte di possibilità, non chiudere il discorso, non esporre qualcosa di cristallizzato, ma creare in progress. E, come sappiamo, tutto ciò che è in progress porta con sé un’imprevedibilità dello svolgersi delle cose. Se riusciamo ad accogliere questa prospettiva, allora la criticità diventa una possibilità.
Da un punto di vista curatoriale, come interpreti il tuo ruolo?
C’è una doppia polarità. Io vengo da un background storico-artistico, e quello che si fa con la storia dell’arte è la ricerca di una cristallizzazione documentata, approfondita e il più precisa possibile. D’altra parte sento anche la necessità di sperimentare nuove vie di ibridazione dei ruoli: dove finisce l’artista e inizia il curatore/la curatrice, e cosa succede nel mentre, che è una prospettiva che io sperimento già da qualche anno con Jacopo Natoli, e il nostro progetto D.A.P.A
Ora questa doppia polarità io la sento, credo che il curatore/la curatrice debba avvicinarsi moltissimo, rubare e imparare dagli/dalle artist*. D’altra parte credo si debba provare a restituire queste metodologie con distacco, cercando di dargli una profondità di discorso in relazione a un contesto: intervenire e stare dentro, partire da un rapporto simpoietico (come dice Donna Haraway), andare dentro le cose, ibridarsi e poi riportare il tutto al di fuori, su altre discipline. L’idea che, in qualche modo, la curatela si interroghi su se stessa. Non fermarsi ma oltrepassare la linea per capire cosa c’è al di là.
Parte 2: In corso
Come procedono le cose? La tua programmazione sta rispondendo a ciò che ti immaginavi? adesso siamo nel pieno del lavoro, giusto?
Abbiamo appena passato la metà, mancano solo due artist* e poi andremo a chiudere, uno è un artista, uno è un collettivo.
La programmazione risponde bene, chiaramente con tutti gli imprevisti naturali che aggiungono sempre un lato inaspettato – se non ci fossero sarebbe strano – però è andato tutto secondo i piani. Con ciascun artist* c’è stato un contatto diverso. Il mio approccio è rimasto lo stesso a livello di indole e metodo, ma poi si cerca un adattamento rispetto alle esigenze dei singoli.
Nel caso del primo artista, Jacopo Ernesto Gasparrini, io l’ho aiutato a sviscerare il lavoro, a dargli una forma diversa. Se vuoi è stato un modo abbastanza classico di fare la curatrice, però è stato interessante perché abbiamo rotto non so quanti specchi, per arrivare a 140 anni di sfortuna. È stato paradossale perché abbiamo iniziato il progetto con una rottura, con un trofeo di specchi rotti che, devo dire, a livello narrativo funziona molto bene.
Poi ho seguito Sofia Tocca, con cui ho avuto un rapporto davvero dialettico. Lei indaga la fotografia, e come la fotografia possa assumere dei caratteri scultorei. Con lei c’è stato un passaggio in più: di solito fotografa oggetti urbani che diventano soggetti, ma insieme abbiamo deciso di fare una deriva a Tor Bella Monaca, dove lei fotografava e io scrivevo. Da lì abbiamo ragionato su come far diventare la fotografia scultura all’interno della tenda, lavorando sulla foto, creando un sopporto ad hoc e usando la tenda come pattern. Adesso ci stiamo tenendo in contatto, e mi fa piacere notare come le nostre conversazioni l’abbiano portata a continuare a esplorare questa strada. Questo per me è una vittoria, perché vuol dire che il lavoro nella tenda ha funzionato bene e che lei non ha sentito il mio intervento come qualcosa di esterno, ma come parte integrante del processo
Mi sembra fosse uno degli obiettivi che ti eri posta inizialmente, che il rapporto creato andasse oltre la mostra, che la collaborazione fosse tanto utile sul breve quanto una possibilità sul lungo periodo.
Si, assolutamente. Poi, rispetto alla conversazione che abbiamo avuto l’altra volta, ho continuato a ragionare sull’idea del criterio secondo il quale avessi scelto gli/le artist*. Prima ti avevo detto come una forma di imprinting: non credo sia la risposta giusta. Penso si tratti di linee di ricerca che mi interessano a livello curatoriale, storico-artistica e anche personale.
Si tratta di persone e di lavori con cui mi sento di poter condividere qualcosa, ma questo credo sia per la natura del progetto, che è deliberatamente soggettiva.
Un’altra cosa su cui ho ragionato è stato il mio posizionamento. La pretesa di essere sia interna sia esterna rispetto al lavoro è irreale, non esiste un punto di vista esterno, nella misura in cui io vedo come questo progetto di Curatela Offresi come un progetto in progress, ma anche come una mia ricerca più ampia, che andrò a sviscerare nel tempo. È la base, l’inizio di un libro. Ora ho bisogno di capire cosa succede, essere totalmente all’interno del processo, che è di per sé un approccio datato, che si avvicina alla pratica militante degli anni 60/70 (non a caso sono cose su cui ho scritto). Ma non è detto che questo approccio sia vecchio, ne che sia l’unico che terrò da qui in avanti. È un’ipotesi sperimentale, stare completamente nel processo, poi forse il distacco sarà uno step successivo.
È un discorso che va fatto alla fine, dopo che si è capito cosa resta – che poi è il modo in cui si fa ricerca sia artistica sia storica.
È un primo capitolo di una ricerca che va avanti a partire dagli errori e dalle esperienze di questo primo episodio.
Il pubblico come ha percepito la mostra?
Una prima difficoltà che ho riscontrato nei visitatori e nelle visitatrici è stata capire la mia funzione, e lo comprendo perché in questo caso io sono una curatrice che lavora in una mostra piena di artist*, che a sua volta porta altr* artist*, curata da dei curatori che hanno realizzato la mostra a partire da un magazine. Capisci che non è immediato.
Però devo dire che questo è stato un fraintendimento forse del primo giorno, perché poi, quando lo spazio ha incominciato a stratificarsi, è stato più facile. Ci sono stat* anche visitatori e visitatrici che hanno partecipato a più opening e che hanno visto l’evoluzione di tutto.
Prima ti raccontavo dei primi due artist*, dopo ce ne sono stati anche altr*, come Sofia Ricciardi, con cui abbiamo elaborato una video performance a distanza. Poi c’è stata la performance di un altro artista, a cui io ho partecipato, e quindi c’è stata un’ulteriore stratificazione del mio ruolo. Se chiedessi a lui, ti direbbe che sono sono la co-autrice dell’opera. Lui già lavorava sul tema del desiderio, poi ha conosciuto me che di cognome faccio Desideri, e abbiamo strutturato assieme una percorso che partisse da questo concetto.
C’è stato un lavoro più tradizionale, un altro più interno al lavoro dell’artista, un altro ancora partecipato facendo esperienze assieme. Per mitikafe ho interagito a distanza fotograficamente attraverso screenshot di chiamate Skype. Abbiamo fatto questa chiamata a distanza dove lei, con quello che è il suo stile fotografico, mi ha permesso di fotografarla dalla tenda. L’autoscatto, che di solito lei produce in studio, è diventato un autoscatto realizzato attraverso me, che ero diventata il suo prolungamento nello spazio. E poi c’è stato il lato allestitivo, in cui abbiamo capito assieme il modo in cui esporre il progetto.
Mi sembra che tutto stia seguendo la linea che avevamo tracciato nella nostra prima conversazione, con il tuo ruolo ibrido, una prospettiva interna/esterna, e un lavoro in continua evoluzione che si adatta al fare degli artisti e loro si adattano alla tenda. Ho l’impressione che tutto stia andando nella direzione da te desiderata.
Forse era più chiaro dall’esterno che internamente. Nel senso, io avevo fissato una ipotesi di metodo, per capire se funzionasse, la cosa che è chiara ora è che si tratta di un capitolo di un percorso più lungo, e che si tratta di un approccio, che ibridato con altri approcci andrà a formare una mia personale idea di curatela.
Da qui alla chiusura che aspettative hai?
Tutto si andrà a chiudere con una completa decontestualizzazione della tenda. La tenda ha assunto un carattere sempre più scultoreo in queste settimane, adesso si trasformerà per accogliere la penultima opera, che la trasformerà in un set da film dell’orrore. zzzzz è un designer che ha ragionato sulla tenda come spazio esperibile, cercando di ribaltare l’idea di funzionalità e di abitabile. Ha creato un set non abitabile e a-funzionale, lavorando anche sull’orrore come qualcosa di esistenziale. L’idea che sta dietro a questo è che se impariamo a vivere in un contesto non confortevole e accogliente, poi il mondo fuori ci apparirà diverso. Il lavoro è fruibile all’interno della tenda, con un video da vedere e la ricreazione di un ambiente domestico. Poi andrà a sparire con l’ultima opera degli Hardchitepture, che ingloberà la tenda nel lavoro. La fine più giusta per un progetto collaborativo come questo.
Parte 3: La fine
Com’è andata la fine ?
Nel finissage ci sono stati gli Hardchitepture, un collettivo di Urbino che parte dal writing per passare via via al tridimensionale. Abbiamo lavorato assieme per qualche giorno a Spazio in Situ, dalla raccolta materiali, all’assemblaggio, all’installazione. E con loro la tenda è stata destrutturata, smontata. È rimasto solo il tessuto. La tenda non è più un luogo ma un concetto.
Ci sarebbe dovuto essere un altro artista, Daniele Villa Zorn, con cui in realtà il processo non si è cristallizzato, ma la relazione curatoriale non era arrivata al punto giusto di maturazione. Abbiamo deciso quindi di non presentare il lavoro, con l’intento magari di ripresentare il tutto in futuro, se saremo convinti
E questo “errore” come lo inserisci all’interno dell’esperienza progetto?
Parlando con Daniele, lui mi ha esternato questo suo pensiero, ovvero che non fossimo giunti a una profondità adeguata per esporre. Ci può essere un errore di metodo, dei fraintendimenti o delle incomprensioni, ma questo è accaduto con tutt* perché le relazioni umane, in genere, sono così. Secondo me, l’“errore” non esiste in questo progetto, se per errore intendiamo il non presentare qualcosa. Anzi, ciò avvalora certi presupposti della ricerca, perché un assunto di partenza di Curatela offresi era di non aver nessuna ansia o obbligo di produzione legata alla mostra. Anche perché, mi auguro, il dialogo continuerà e la mostra è e sarà un primo step per sviluppare un percorso personale e lavorativo secondo presupposti già messi in campo o verso altre direttrici.
Che cosa non ha funzionato secondo te? Perché secondo me cosa ha funzionato emerge bene: la relazione con gli artisti, la processuali, la forma ibrida et cetera. Cosa invece rivedresti?
Guarda, è stato un mese di full immersion di comprensione della mia posizione curatoriale e della mia pratica. Quello che non ha funzionato è stato senza dubbio il ritmo frenetico. La quantità degli artisti e il breve tempo mi ha messo molto alla prova da un punto di vista organizzativo e metodologico. È ovvio che iniziare una relazione curatoriale con artist* che non conosci e pensare di cristallizzare un progetto insieme abbia portato a una serie di preoccupazioni logistiche. Il dialogo però ha assunto un grande valore anche nelle difficoltà logistiche, perché proprio nelle criticità è emerso spessore.
È capitato poi che in questo mese studiassi molto il pensiero di Lionello Venturi e rinnovassi la passione per Carla Lonzi. Quest* critic* mi hanno aiutato a pensare a come gestire il discorso. Ci dicevamo nella scorsa chiacchierata che Curatela Offresi sarà il primo capitolo di una ricerca che si svilupperà. Questo mi ha fatto molto pensare a come gestire il discorso, ora che sono stata all’interno devo capire come coniugare questa visione con una più esterna. I dubbio arrivano dalla mia idea di posizionamento curatoriale, il primo passo è conoscerlo, poi forse è necessario stare a lato, arrivare a un punto in cui hai colto l’essenza del lavoro e lo sai trasporre in un contesto più ampio.
Questo dubbio sul tuo posizionamento è il fil rouge delle nostre chiacchierate.
Senza dubbio, avevo bisogno di sperimentare, poi il punto di vista si è fatto interno totalmente, ora che tutto è finito credo che la sfida sia quella di posizionarmi lateralmente, per avere una visione più ad ampio raggio sulle ricerche. Però, come sempre, dovrò sperimentarlo operativamente per capirlo a fondo.
Questo contenuto è stato realizzato da Marco Bianchessi per Forme Uniche.
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