In occasione della Monaco Art Week il Grimaldi Forum inaugura la mostra Alberto Giacometti. Una retrospettiva. Il reale meraviglioso. Dal 3 luglio al 29 agosto l’esposizione ripercorre in modo inedito la vita e l’arte del celebre scultore.
La poetica
Volto ascetico, scavato, solcato da rughe profonde che ne accentuano i tratti sofferti, quasi calcinati, sigaretta perennemente accesa (ne fumava più di 80 al giorno), impermeabile eternamente spiegazzato e svolazzante, capelli brizzolati, riccioluti ed inconfondibili, Alberto Giacometti ha consegnato ai posteri nelle innumerevoli fotografie che lo ritraggono la sua figura irrequieta, tormentata, un corpo che nella sua particolare condizione di limen sembra dividere e congiungere nel contempo il suo mondo interno con l’esterno.
Se fare arte significa come diceva Klee, rendere visibile l’invisibile, dare una forma a ciò che abbiamo dentro all’interno di un processo creativo, non possiamo non essere tentati di paragonarlo a un novello Sisifo dinanzi alla percezione di uno sforzo eternamente frustrato, teso a configurare, costruire una dimensione simbolica del corpo quasi per entrarci a vivere ed esistere. L’opera, del resto, non può prescindere dai problemi esistenziali legati al suo sentire.
Senza cadere nella trappola della psico-biografia, è innegabile il legame che si instaura fra l’autore e la sua opera, soprattutto se si tratta di artisti, scrittori. Da questa irrinunciabile ambivalenza nasce il turbamento e l’angoscia che ci prendono dinanzi alle sculture di Giacometti, ai suoi ritratti, incantati da qualcosa che ha a che fare col nulla, l’infinitamente piccolo fino alla sparizione e la ricerca dell’infinitamente grande, quasi a voler sfiorare il sublime.
Scarnificati fino allo stremo e sul punto di scomparire, quasi come la civiltà etrusca che amò tanto, filiformi, spettrali, il significato dei corpi lavorati (torturati?) da Giacometti esige un pensiero complesso, capace di comprendere la magnifica ossessione che lo portò ad una scultura fatta “per via di levare”, quasi un omaggio al vuoto e alla futilità della vita, ossessionato come fu dal sesso e dalla morte.
Giacometti era convinto che gli antichi avessero espresso la verità attraverso forme assolute, capaci di sintetizzare la componente reale ed universale, spirito e materia. Nel plasmare con le proprie mani uomini e donne sorti dalle ceneri di due guerre mondiali, l’artista italo-svizzero crea inaspettate analogie visive, simmetrie ed incontri assimilando linguaggi arcaici come quelli dell’arte etrusca ed egizia (alla Fondation Giacometti di Parigi si tiene fino al 10 ottobre la mostra Giacometti e l’antico Egitto, che analizza come l’arte egizia fu una costante fonte di ispirazione per lo scultore), e nel contempo si rivela come la quintessenza della ricerca artistica della modernità, sospesa fra la necessità di una forma e la coscienza che la forma stessa sia destinata a ripensarsi fino a svanire nel vuoto dello spazio.
Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo? Ma il momento estetico non dovrebbe far parte del conosciuto non pensato? “Una donna, la faccio immobile e l’uomo, lo faccio sempre in cammino” – dice. E’ il periodo in cui Alberto Giacometti, dopo essersi variamente collocato accanto alle Avanguardie, al Primitivismo e al Surrealismo a cui aderì negli anni ’30, comincia ad essere conosciuto e riconosciuto. Umile, modesto fino alla sparizione, ma conosceva bene il valore della sua arte, diceva di sé: “Io un artista? Andiamo, è una gran bella parola. Sono soltanto un maniaco. Dipingo e scolpisco ciò che vedo perché non so fare altro. Voglio giusto copiare il modello nella maniera più esatta”. Ma beninteso, sarà sempre visto come io lo vedo, con il mio occhio. Nessuno vede le cose allo stesso modo”. Cerca in realtà un vero di memoria Giacometti.
La figura umana
Gli anni della guerra vedono l’emergere di una folla di piccole figure saldamente ancorate su basamenti che capovolgono le antiche norme della statuaria e i suoi normali assetti visivi. Tra il ’46 e il ’47 nascono le grandi figure di donne erette, si inaugura la serie dell’Uomo che cammina e infine quella dei busti. I volti divengono sempre più piccoli, quasi erosi, i profili ridotti a una lama. Sono figure che vengono da un tempo sconosciuto, remoto, come nelle Pitture nere degli anni ’50. Frontali, si stagliano sul fondo nero, direttamente ispirate ai Ritratti del Fayum che, deposti sulle mummie, ricordavano ai vivi il volto dei morti. I ritratti, si sa, furono la sua ossessione. I suoi modelli, statici e stoici, soprattutto la moglie Annette e il fratello Diego, posavano pazientemente per interminabili sedute.
In realtà i volti dipinti, le prove di pittura indefinite e tormentate disegnati da Giacometti sembrano solo il prologo, l’introduzione al problema del ritratto, sono volti incompiuti, parlano del vuoto , della solitudine che li abita. Le sue figure lottano con l’esistenza, ( La grande Tete, Lotar II ), lo sguardo fisso in un altrove sconosciuto, lontano. Ciò che maggiormente gli interessa è l’essere umano, lo si ritrova nei disegni, nei dipinti, nelle sculture: i suoi personaggi sono rigidi, emaciati, spettrali, quasi astratti e nel contempo potentemente, drammaticamente concreti, sublimi e materiali, quasi una rappresentazione fisica della sua opera più emblematica, l’Homme en marche II, forse la sua Ombra più celebre ed enigmatica.
Per quanto riguarda la tecnica, contrariamente allo scultore che taglia e cesella, Giacometti comincia col fissare una struttura in metallo su cui poi modella l’argilla e il gesso. Ne viene fuori una figura nervosa, agitata e pulsante, percorsa e quasi corrosa dalla luce. Le sue opere saranno poi colate nel bronzo. La sua scultura agisce “per via di levare”, ma il vuoto che egli pone alla base del processo creativo non rimane esterno al volume, lo aggredisce e corrode dall’interno, a tradurre la fragilità e l’immensa solitudine dell’essere umano. Le sue sculture sembrano sfidare l’equilibrio per consunzione della carne fin quasi a sparire, ombre quasi, come le filiformi figure dei morti etruschi, il ricordo va alle operette votive, al bronzetto allungato dell’epoca dei Lucumoni che forse D’Annunzio chiamò Ombra della sera.
La sua opera, che si colloca fra gli esiti più potenti e singolari del ‘900, sembra essere un residuo dell’esperienza dello sguardo con la sua tendenza alla sottrazione, alla sparizione dietro cui si possono intravedere le pulsioni, i suoi dubbi, le macerazioni interiori e gli dà quel tocco intimo che la rende unica, ma ne mette in luce anche i legami amichevoli lungo un percorso che si dipana in uno stretto, tormentato intreccio tra vita ed arte, passato e presente, emozione, creatività. Oltre ai congiunti e agli amici intimi amava Giacometti la compagnia di artisti e scrittori con cui ingaggiava interminabili ed accese discussioni ed erano Arp, Miró, Ernst, Picasso, Prévert, Eluard, Bataille, Genet, Leiris, Queneau, Beckett, per cui creò L’Albero , spoglio e solitario, di Attendendo Godot (in mostra Gerard Byrne da Giacometti) e soprattutto Sartre, col quale instaurò tra le due guerre un dialogo che influenzerà spesso l’opera di entrambi.
La mostra
Riunendo su uno spazio di 2500 mq. più di 230 opere, punteggiate da capolavori e accompagnate da fotografie e film, la retrospettiva del Grimaldi Forum realizzata con la collaborazione della Fondazione Giacometti di Parigi che ha prestato le opere, vuole offrire ai visitatori quell’idea di reale meraviglioso che l’artista coglie guardandosi attorno , sia esso il suo buio e disordinatissimo atelier come i sublimi paesaggi dell’infanzia o dei faubourgs parigini, l’infima bellezza del mondo, nel quadro di un percorso orchestrato dalla curatrice Émilie Bouvard, direttrice scientifica delle collezioni della Fondazione Giacometti.
L’iter della mostra si snoda così intorno a 14 sequenze originali dove spiccano in particolare i temi prediletti, la rappresentazione della testa, del volto, del corpo femminile, il suo rapporto con la solitudine, con la malinconia, la morte. La grande retrospettiva rivela un Giacometti che sperimenta ai limiti della scultura, il pittore e il disegnatore che oltre al ritratto pratica i generi del paesaggio e della natura morta. Lungo un percorso cronologico si comincia dalla tentazione cubista degli anni della gioventù, si attraversa la fase surrealista con la famosa scultura L’oggetto invisibile (1934-35). Il titolo iniziale de l’Obiet sembra fosse Mani che tengono il vuoto, legato forse all’elaborazione di un lutto, fu André Breton a ribattezzarla The Invisible Object quasi ad evocare l’oscuro oggetto del desiderio caro ai surrealisti appassionati di psicoanalisi.
Si susseguono le sale sul tema quasi ossessivo della figura umana con opere maggiori come Il naso (1947), figure che lottano con l’esistenza, gli ultimi volti, di un dolore attonito, silenzioso, amaro (La grande Tete, Lotar II), lo sguardo cieco, fisso in un altrove lontano. Fra le molte opere in esposizione il dipinto Annette Noire del 1962 (olio su tela 55 x 45,8 cm) ritrae la moglie Annette Arm (1923–1993). Spettacolare la ricostruzione dell’atelier di Alberto Giacometti nel dispositivo audiovisivo immersivo, un gigantesco affresco animato firmato Mosquito che fa vedere l’artista all’opera (durata 4min45s). L’allestimento minimalista a cura di William Chatelain contribuisce a creare una sensazione di atemporalità che ben esalta i profili filiformi, in omaggio a ciò che diceva Giacometti “La scultura sta nel vuoto. E’ lo spazio che si scava per costruire l’oggetto e a sua volta è un oggetto che crea uno spazio”.
Proveniente da una famiglia di artisti, (la Fondazione Maeght espone quest’estate l’originale percorso di una famiglia di creatori), Alberto Giacometti, nato a Borgonovo, piccolo villaggio della Svizzera italiana, nel 1901, si trasferisce a Stampa dove il padre installa un atelier. Fondamentale il suo incontro con l’arte italiana quando nel 1920 accompagna il padre alla Biennale di Venezia. Soggiorna a Roma, visita Assisi, Firenze e Napoli. Due anni dopo arriva a Parigi per studiare scultura e nel 26 si installa nell’atelier del 46 Rue Hippolyte Maindron che gli servirà da alloggio e luogo di lavoro.
Eredità cubiste e primitiviste e alta accademia alla Rodin nutrono le sue prime sculture quando lavora a Parigi presso Archipenko e frequenta le lezioni di Bourdelle, fino a quando La Boule suspendue del ‘30 attira l’attenzione di Breton che assieme a Dalì ne fu incantato. E ’l’inizio del tempo breve di prossimità al movimento surrealista prima del riemergere di istanze astratte e geometrizzanti. Si spezzano i legami con i surrealisti e inizia un periodo di assoluta concentrazione e solitudine che preparerà gli anni di poi. Divenuto famoso soprattutto per le sue sculture, in particolare The walking men (1960) e la serie delle Femme debout, Alberto Giacometti è stato anche pittore, disegnatore e grafico d’eccezione.
Nel 43 incontra a Ginevra Annette Arm che diverrà sua moglie e fra i suoi modelli preferiti. Nel periodo del dopoguerra la sua fama si afferma in tutto il mondo con mostre a New York, (ma già dal 36 il suo mercante in USA è Pierre Matisse), a Londra, in Germania, Danimarca. Dopo una crisi artistica duratura incontra Yvonne Poiraudeau, la prostituta conosciuta come Caroline. Questo incontro segna l’inizio dell’ultimo periodo artistico di Giacometti, quello dei ritratti di Caroline. Muore a Coira nel 1966 lasciando un gran numero di quadri incompiuti nel suo atelier. Artista per iniziati, Alberto Giacometti è divenuto un mito del mercato soprattutto dopo che una sua grande scultura “L’uomo che cammina” è stata battuta all’asta per la cifra record di 74,2 milioni di euro.
Informazioni
Alberto Giacometti. Una retrospettiva. Il reale meraviglioso.
Fino al 29 agosto 2021.
Espace Ravel del Grimaldi Forum Monaco – 10 Avenue Princesse Grace.
Aperto tutti i giorni dalle 10h alle 20h. Martedì e giovedì fino alle 22h.